THE AR-KAICS – See the World on Fire (Dig!)

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Il suono degli Ar-Kaics si allontana sempre più, forse definitivamente, dalle coordinate garage rock iniziali (più promesse che reali) per farsi fogliame folk, sfiorando a volti toni da predicatori apocalittici (Land of the Blind) e concedendo poco spazio alla leggerezza (Stone Love, unico pezzo “cantabile” della raccolta).

L’idea di iniziare il “viaggio” con un disco per nulla semplice come Chains, sorta di invocazione voodoo-folk la dice lunga sulla volontà del gruppo di estraniarsi da qualsiasi contesto musicale, di appartarsi volontariamente in un mondo per pochi intimi fatto di poche lusinghe.

Un mondo spregiudicato e anticonformista, quello della band di Richmond, che sembra voltare perennemente le spalle alle aspettative del pubblico, deluderne l’orizzonte di attesa, attraendo a sé nugoli di curiosi più che piccole folle di gente vociante e distratta. Votandosi in qualche modo all’”arte per l’arte”.  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE PRISONERS – Morning Star (Own-Up)

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La line-up è quella di sempre: Allan Crockford, James Taylor, Graham Day, Johnny Symons e l’etichetta, quella storica della band: la Own-Up. Tanto basterebbe per fare del ritorno dei Prisoners uno degli eventi del 2024.

A smorzare un po’ gli entusiasmi è però arrivato un singolo come Going Back che è, praticamente, una sputata rilettura dei Who di Who’s Next, Won’t Get Fooled Again in particolare che però resta fra gli intoccabili della storia, e non andava toccata. Anche se, va detto, loro sarebbero fra i pochi legittimati a farlo.  

Un episodio che tuttavia resta più o meno isolato all’interno di un disco che si muove nel più classico stile Prisoners riattivando l’effetto nostalgia che operazioni simili prevedono. In virtù di quello, Morning Star godrà del plauso che merita, toccando un po’ tutte le “essenze” che la band inglese ha sprigionato durante gli anni d’oro, dal northern soul all’Hammond-beat, dal garage rock alle tinte da spy-movies e a quelle memori delle eruzioni di Deep Purple e Hendrix.

La novità è una maggiore, forse anche eccessiva attenzione alla cura delle parti vocali, con i cori protagonisti a scena aperta in molti episodi (If I Had Been Drinking, My Wife, This Road Is Too Long, Break This Chain) e la voce solista (notevolmente ammansita rispetto al passato, sebbene sia ora maggiormente in grado di manovrare un’espressività e una modulazione calda e soul-oriented) in prepotente primo piano rispetto agli strumenti. I Prisoners restano dunque inattaccabili, dalle critiche quanto dall’ossido.

L’uragano però, quello vero, è retrocesso a tempesta.   

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE LEMON TWIGS – A Dream Is All We Know (Captured Tracks)

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Ancora una volta, come fu già per i Redd Kross, a riportare in auge il suono del power-pop ci si affida a dei fratelli, stavolta peraltro figli d’arte. Destinatari di un’attenzione inaspettata e forse in parte immotivata da parte dei media i fratelli D’Addario hanno visto un’impennata delle aspettative rispetto a questo loro nuovo album, aspettative affatto tradite dalla pubblicazione di una dozzina di canzoni che tengono fede a quanto da loro già espresso in termini di stupefacente “adattabilità” ad un suono retrò che sembrava in realtà essere odiato da tutti. Non stupirà pertanto vedere, sul mio modesto blog, le visualizzazioni delle recensioni relative a band come Turtles, di Simon & Garfunkel, degli stessi Beatles (statisticamente le meno lette in assoluto) o dei Reaction restare piattamente ferme a pochissime, sparute unità e veder lievitare questa in virtù della sovraesposizione cui i Lemon Twigs sono sottoposti da un po’ e che fa effetto sui boomer più che sulle nuove generazioni, anche se i vecchietti miei coetanei non lo ammetteranno mai.

Dunque a cinquant’anni ci si riscopre, un po’ a sorpresa, innamorati di canzoni come In the Eyes of the Girl, un cheek-to-cheek da pellicoletta che ci avrebbe dato il voltastomaco solo tre anni fa.

Di tutto ciò i Lemon Twigs non hanno però alcuna colpa, o merito: loro fanno egregiamente il loro lavoro e portano avanti la loro missione, riportandoci in casa le armonie dei Byrds (quanta bellezza c’è su If You and I Are Not Wise?), dei Turtles, dei Beach Boys, dei Mamas and Papas, degli Zombies (How Can I Love Her More? è quasi un plagio) e facendole sembrare la cosa più figa del mondo. Tutto ciò cui ci si proclamava allergici è adesso terapico. Ciò che era parte della malattia, è adesso parte della cura.

Vai a vedere come gira il mondo. E a vedere come girano le palle a me.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

STABBING JABS – Stabbing Jabs (Beast)

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Due quarti dei Chrome Cranks, un quarto dei Gang Green, un sesto dei Savages.

E anche se a volte il curriculum non conta, molte altre volte invece si, ed è proprio questo il caso degli Stabbing Jabs.

Mettendo a fattor comune l’amore per il suono stordente degli Stooges, Peter Aaron, William G. Weber, Chris Donnelly, Tim Moore e Andrew Jody mettono su un album che spacca le ossa, da quelli del cranio giù fino a quello sacro.

Si comincia con Broken Brain e l’immagine che ci si staglia in mente è quella dei Dead Boys, in una versione ancora più criminale e feroce. Bad Slime è invece una colata di metallo quasi post-core, come lo facevano negli anni ’90 formazioni come i Quicksand, dimenticati anch’essi. Un afflato, quello post-core, che è la vera matrice del gruppo, ciò che li differenzia sostanzialmente dai Chrome Cranks cui verranno per ovvi motivi paragonati e che invece qui affiorano solo raramente, per chi è capace di ascoltare senza giudizio a priori. Alle radici del punk si avvitano del resto le due cover del disco, recuperate dalle macerie dei bombardamenti su Cincinnati (Little in Doubt e Go-Go Wah-Wah dei Verbs e Dennis the Menace).

La band ha la forza esplosiva che le premesse lasciavano intuire, con pezzi clamorosi come Little Lamb, Drowning Girls, Radiation Love e il delirante cingolato noise di You’re a Drag a fare il vuoto attorno, ora che tutti sembrano affascinati dalle buone maniere e ammansiti dalla loro pensione da pompieri dimenticando di quando si professavano incendiari.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

CESARE BASILE – Saracena (Viceversa)

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La musica e la voce di Cesare Basile sono arse come questa terra su cui non piove più. Una terra dove il vento soffia come fosse una lama di rasoio e i tronchi d’albero diventano armature, cortecce contorte come budella di legno che ardono al sole e che urlano di dolore come pinocchi mai diventati bambino. Giganti ultracentenari, Matusalemme verdeggianti che possono raccontarti storie formidabili, se riesci a farli parlare. E Cesare riesce a farli parlare. Prende i loro arti e dona loro la parola. Poi, si fa albero anche lui. E sembra invocare la pioggia. E piove.

Saracena è il più viscerale fra i dischi realizzati dal musicista catanese.

Ombra che non rinfresca, acqua che non ristora. La Sicilia come ventre che accoglie ma anche come ventre stuprato. La Sicilia che guarda i santi passare, sfilare sotto le sue case diroccate, dentro i suoi intestini che sono labirintiche vuccirie gentrificate alla bell’e meglio e poi rinchiudersi in chiesa. La Sicilia che l’hanno comandata tutti e non l’ha ammaestrata nessuno. La Sicilia cui hanno tagliato il cordone ombelicale dal resto d’Italia e cui adesso hanno promesso di farne uno in cemento.

Saracena apre il suo sipario su una casa diroccata di Noto, il paese dei caminanti che hanno dato il nome al gruppo che ha accompagnato Basile negli ultimi anni. Stavolta però, Cesare è in uscita solitaria, come un pastore cui è scappato il gregge. Con lui, i suoi mille strumenti dai nomi improbabili che sanno di ruggine prima ancora di essersi ossidati, a volte immersi in una ghirlanda di campi elettromagnetici come quelli già sperimentati in Pulicane Tape (Ciuri i cutugnu, U iornu ro Signuri, Prisenti Assenti), a volte in semplice risonanza/assonanza con gli elementi naturali, come la corona di spine di Cristo falciata dal vento sul Golgota.

Saracena è un disco di spettrale musica desertica e di stoppa ferrosa.

Cesare Basile si ferma al centro della piazza, tira fuori la sua panchetta da sciuscià e invece di lustrare le scarpe ai padroni, cura le ferite sui piedi scalzi dei passanti.    

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE WYLDE TRYFLES – Outta Tyme (Soundflat)

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Il nuovo disco dei Wylde Tryfles mi è passato addosso e manco me ne sono accorto. Tanti solchi sul vinile e neppure uno sulla pelle.

Sciapetto, Outta Tyme. Uno di quei classici dischi in cui ci sono tutti i suoni giusti, tutte le influenze giuste, la grafica giusta, il look giusto ma la grinta, quella, sembra disegnata con lo spirografo. Dieci brani che non aggiungono nulla ad un genere che, anche volendone considerare il suo revival (cui il gruppo si rifà palesemente, più che alle band del ’66) si avvia ormai verso il mezzo secolo e ha superato i 180 chili sui miei scaffali. Aggiungere altro peso, col rischio che mi rovini tutto sui piedi, non mi pare scelta intelligente se non supportata da motivi imprescindibili. E non è questo il caso.  

                                                                     Franco “Lys” Dimauro

THE DARTS – Boomerang (Alternative Tentacles)

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Continua senza interruzioni la liaison fra l’etichetta punk di Jello Biafra e le regine incontrastate del garage-punk Darts con la pubblicazione di un nuovo album ad un anno esatto dal precedente e registrato praticamente quasi in contemporanea a quello. Boomerang prosegue sul solco delle tre precedenti uscite, con potenti stilettate sixties-punk come Are You Down, Liar (col suo efficace richiamo alla Stormy dei Jesters of Newport, NdLYS), Hang Around, Photograph, You Disappoint Me e tenebrose ballate come The Middle of Nowhere o Slither ispirate tutte o quasi sugli amori tossici e le conseguenze che si trascinano.

Al consueto, ficcante suono di Farfisa si abbina sempre più sovente un basso più fuzzato del solito che inspessisce le trame di pezzi come Pour Another, Photograph, Hell Yeah, Welcome to My Doldrums. La “tenuta” dell’intero disco è compatta e fortemente motivata e chi lo sa che mentre ce lo godiamo le quattro streghe non abbiano già nel pentolone gli ingredienti per la prossima pozione…

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE BARON FOUR – Outlying (Chaputa!)

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Dieci anni esatti dal debutto e sette dall’ultimo Silvaticus: i Baron Four non sono esattamente degli stakanovisti però potete stare certi che quando decidono di pubblicare un album, si tratta sempre di un ottimo disco.

E infatti Outlying non delude le aspettative.

Il suono nel frattempo si è avvicinato, gradatamente, a quello dei mitici Mystreated abbandonando le irruenze teen-punk per abbandonarsi ad un grungey-folk sempre sostenuto da un garbato uso delle melodie, anche se paradossalmente è proprio il giro fuzzato di Never Feeling Blue a costituire il momento migliore di un album che non deluderà i tanti amanti del garage-rock di matrice britannica, quello che non è mai riuscito a scrollarsi la polvere magica del Merseybeat. Gli altri, si scrollino pure quel che gli resta da scrollarsi.    

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

PEARL JAM – Dark Matter (Monkeywrench)

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Discutibile, come sempre, già dalla copertina, Dark Matter ribadisce una sola, grande verità: i Pearl Jam hanno fatto solo tre album veramente belli, tutti nella prima metà degli anni Novanta. Tutto il resto, da trent’anni a questa parte, è un tentativo disperato di sopravvivere a sé stessi. Infilando di tanto in tanto un pezzo giusto ma mai un album “a tenuta stagna” come erano stati Ten, Vs. e Vitalogy.

Il risultato più clamoroso ed imprevedibile è stato però che, alla luce dei dischi successivi, in molti si sono sentiti di abbracciare la fertile fede del revisionismo (la stessa che ha avvelenato le sorti di band come Smashing Pumpkins, R.E.M., U2 e, se Cobain non si fosse sparato in bocca, avrebbe contagiato pure i Nirvana, potete starne certi, NdLYS) e rivalutare in negativo anche quelli, che invece erano e rimangono dei dischi di grande valore e con molte cose da dire. Da No Code in poi invece è come se le luci si fossero spente, proprio mentre si accendevano i riflettori delle grandi arene.

Dei Pearl Jam è rimasto poco più che un guscio vuoto, un barattolo che ogni tanto risuona come quello del brano di Gianni Meccia.

Sono, in fin dei conti, la cover band dei Pearl Jam.

Canzoni che sono rimasticature infinite di quanto già scritto, fatto, detto e suonato da decenni.

Roba da campionario.

Loro, dei piazzisti.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE LOONS – High and Lonesome (Like Jimmy Reed Said)/Daffodils or Despair (Disques Rogue) / THE NIGHT TIMES – I’m Leaving You/Tell Me (Disques Rogue) / THE LOW SPIRITS – You Lied/Never Said I Need You (Outro) / GOODCHILDE – Email Female/Hang Up (Spinout Nuggets) / THE FADEAWAYS – Levitation/A Question of Temperature (Uncle Jazz)

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Nel breve volgere di due/tre anni la Disques Rogue si è imposta come la miglior etichetta dedicata alla stampa di 7” di matrice garage-rock, in grado di acquisire via via nomi di sempre maggior risonanza nel settore di loro competenza. L’ultimo “acquisto” riguarda nientepocodimenoche i grandi Loons dei coniugi Stax, che alla label francese concedono due chicche come il grugnito freakbeat di High and Lonesome e il potentissimo boogie-beat di Daffodils or Despair a dimostrazione che la band di San Diego è ancora oggi un concentrato di effervescenze sixties come pochissime altre in giro per il pianeta.

Californiani come loro, ma di Los Angeles, sono i Night Times di cui dovrebbe essere imminente l’uscita del secondo album. Il nuovo singolo, sempre per la Rogue, non fa che rendere più trepidante l’attesa: due pezzi crepitanti ed esplosivi nella più classica tradizione garage-punk, con una prestazione vocale clamorosa di Anthony Melandez.

I Low Spirits provengono invece dalla costa est, Rochester per la precisione, lì da dove provenivano i St. Phillip’s Escalator del cantante Ryan Moore, autore di entrambi i pezzi di questo loro terzo 7”. Nel loro caso il primattore è certamente il Farfisa sparato in primissimo piano sia quando è in combutta con un bel fuzz sound come nella clamorosa You Lied, sia quando si fa carico dell’intero pezzo come nel retro di questo singolo ancora una volta strepitoso.

I Goodchilde furono invece una delle tante avventure musicali di Allan Crockford successive allo scioglimento dei Prisoners. Una formazione “clandestina” che girava per il Midwest inglese col nome di Johnny and The Bandits e un repertorio di cover trafugate a due decenni di musica underground. Dopo due album col nuovo nome, alla vigilia del terzo, la band si ritrova in studio un’ultima volta nel 1996 e dopo aver messo su nastro un paio di pezzi, scioglie le fila. Quei due pezzi vengono ora pubblicati per la prima volta dalla Spinout Nuggets accrescendo la nostalgia per quel tipo di suono sferragliante che i Prisoners avevano sdoganato e che proprio grazie alle avventure postume dei suoi componenti, non cesserà mai di colpirci al petto.

Dall’altra parte del globo arrivano invece i Fadeaways, ovvero la più temibile cover band garage mondiale: nelle loro mani anche la polverosa Levitation dei 13th Floor Elevators diventa una bomba atomica di esplosiva ferocia sixties-punk. Più “ragionata” la cover di A Question of Temperature che occupa il lato B di questo disco che esce in formato inedito (9”) per la Uncle Jazz e che anticipa il nuovo album dei ribelli di Tokyo e che non dovrebbe tardare.  

                                                                               Franco “Lys” Dimauro