THE AR-KAICS – See the World on Fire (Dig!)

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Il suono degli Ar-Kaics si allontana sempre più, forse definitivamente, dalle coordinate garage rock iniziali (più promesse che reali) per farsi fogliame folk, sfiorando a volti toni da predicatori apocalittici (Land of the Blind) e concedendo poco spazio alla leggerezza (Stone Love, unico pezzo “cantabile” della raccolta).

L’idea di iniziare il “viaggio” con un disco per nulla semplice come Chains, sorta di invocazione voodoo-folk la dice lunga sulla volontà del gruppo di estraniarsi da qualsiasi contesto musicale, di appartarsi volontariamente in un mondo per pochi intimi fatto di poche lusinghe.

Un mondo spregiudicato e anticonformista, quello della band di Richmond, che sembra voltare perennemente le spalle alle aspettative del pubblico, deluderne l’orizzonte di attesa, attraendo a sé nugoli di curiosi più che piccole folle di gente vociante e distratta. Votandosi in qualche modo all’”arte per l’arte”.  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE NOT-QUITE – The Not-Quite (Resonance)

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Storia lunghissima ma sfortunata quella del gruppo del Connecticut. E questo nonostante le ottime premesse (la partecipazione a due compilation-chiave del movimento neo-garage come Garage Sale! e Declaration of Fuzz) e un breve futuro in casa Voxx che fecero da cornice al loro disco di debutto licenziato dalla Resonance nel 1986 su cui la band si cimenta su episodi beat di buon livello (Paint Me in a Corner, Get Away e Just Like Us per esempio oppure la cover di War or Hands of Time dei Master’s Apprentices che però non scalfisce il marmo duro dell’originale) e una serie di diapositive dai colori più acidi (Mushroom People, Fickle Wind o ancora la bella e spappolata version di Green Slime incisa sul singolo allegato all’album e attribuita a “Dio solo lo sa”). Il pezzo migliore del lotto è tuttavia Heaven Sent, un bellissimo numero grungey-folk pieno di fuliggini scritto paradossalmente da Joe Guidone, l’anima “garage” del gruppo che, paradosso dei paradossi, verrà estromesso dai Not-Quite proprio perché ritenuto di impedimento alla progressiva evoluzione in chiave folk-rock documentata da …or the Beginning. Sempre dell’italo-italiano è firmata la bella Let Her Go che inaugura il disco con una formidabile fumata acida che ricorda tanto i Plan 9 quanto i Vietnam Veterans, band coeve cui i cinque (il tastierista, anch’esso italo-americano, parteciperà a metà delle sessions anche se alcune sue parti verranno ri-registrate in quanto totalmente fuori tempo, NdLYS) possono tranquillamente essere accostati.

Uno dei migliori dischi della serie B del campionato neo-sixties americano dei mid-80’s.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE THINGS – Outside My Window (Voxx)

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Ad un anno scarso da Coloured Heaven i Things continuano a guardare fuori, verso il cielo, mentre lo colorano con altre dieci pennellate di neopsichedelia, folk-rock e power pop che raggiungono qui la vetta ardimentosa e mai più toccata di una All Work and No Play tutta giocata su uno straniante effetto reverse e su un coro di cherubini hippies che fa quasi sfigurare tutto il resto nonostante un’intera facciata B che è una vera miniera di kryptonite color verde-acido. Can’t Get Enough e la delicata Everytime sono invece le piccole meraviglie custodite sull’altra side mentre la title-track tenta una crasi efficace fra il folk acido americano e il freakbeat inglese che è da sempre uno dei pallini della band californiana.

Col resto si impiastricciano un po’ le dita.

Come piace(va) fare anche a noi, del resto.      

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE THINGS – Coloured Heaven (Voxx)

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Fra i rappresentanti dell’”ala morbida” della Voxx, i Things non riscossero il successo che avrebbero meritato sin dal debutto, ovvero questo Coloured Heaven lanciato dal cielo nella primavera del 1984. Presentato in realtà alla Voxx come demo delle capacità e del “raggio d’azione” del gruppo, verrà pubblicato, in una tipica mossa “alla Shaw”, così com’era, ufficializzando di fatto il debutto della band di Los Angeles che cerca di coniugare power-pop, folk-rock (Merry-Go-Round, Knickerbockers e Turtles in primis) e beat psichedelico inglese, in particolare il periodo “di mezzo” di Beatles e Yardbirds dei quali riprendono in maniera egregia Mr. You’re a Better Man Than I. Le onde variopinte dei Things si infrangono insomma sulle medesime scogliere dei Last, raccogliendone in parte il testimone e ponendosi in chiara competizione con i “cugini” Three O’Clock e superandoli di una spanna già col successivo e più strutturato Outside My Window.

Si tratta del gruppo in cui muove i primi passi e batte i primi tamburi Joe McDonald, futuro “fratello acquisito” dei fratelli McDonald dei Redd Kross e quindi batterista in pianta stabile nei Muffs di Kim Shattuck ma l’autore delle belle canzoni del gruppo è Steve Crabtree, poi solista “confinato” in America e senza grosso richiamo oltre oceano e qui già abile autore impressionista di un melodioso folk-rock memore della lezione dei grandi gruppi di due decenni prima. Creando il loro piccolo giardino fiorito dentro il paradiso artificiale della città degli angeli.   

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

PETER PERRETT – Caramelle da uno sconosciuto

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Molto prima di scrivere una delle dieci canzoni DECISIVE dell’era new-wave (Another Girl, Another Planet, qualora vi stiate chiedendo quale sia, NdLYS) Peter Perrett aveva già iniziato a praticare l’underground inglese, totalmente plagiato dall’ascolto di Transformer di Lou Reed e assuefatto al rock decadente delle icone Bowie/Pop/Bolan. Peter in seguito negherà questa influenza chiamando a sua difesa il folk urbanizzato di Dylan, ma nei 13 pezzi pubblicati postumi col titolo di Legendary Lost Album e registrati dagli England’s Glory in soli 5 giorni nel gennaio del ‘73 e tra cui figurano le primitive versioni di City of Fun e Peter and the Pets poi rielaborate dagli Only Ones si avverte la stessa grigia e annoiata indolenza che volava sul Satellite of Love di Reed per atterrare con l’Astral Plane dei Modern Lovers sulla Good Feelings delle Violent Femmes: l’urbanità marcia, torbida e deviata di quelle ballate metropolitane cariche di tubi al neon e sporcizia accumulata ai bordi delle avenues americane.

 

E dove cazzo lo infili un disco così?

Dico, se hai un negozio di dischi, dove lo metti?

Nello scaffale del punk?

In quello della new-wave?

Forse che starebbe meglio in quello dedicato al power pop? Quello che nessuno va mai a visitare?

Oppure in quello dedicato alla glam music. Che tanto qualcuno che va a rovistare tra David Bowie e Lou Reed c’è sempre, anche solo per ricordarsi di essere stato giovane pure lui.

E se avete uno di quei negozi che usano le ancor più approssimative categorie Rock e Pop?

Be’, se avete uno di quei negozi, saprei io dove infilarvelo.

Ma probabilmente avete già fatto da voi, spostandolo magari dal primo scaffale al secondo quando Another Girl, Another Planet è diventata la gonzissima colonna sonora dello spot Vodafone aiutandovi a vendere qualche copia di uno di quei dischi che da anni non avete mai saputo rifilare a nessuno perché in fondo non piaceva manco a voi.

Perché The Only Ones è un disco che parte sbagliato.

Un album che ha dentro due cose come Another Girl, Another Planet e City of Fun e decide di non esibirle subito, è un album che vuole orecchie attente.

Quelle che il punk, qualsiasi cosa voglia dire nel 1978, non può garantirgli.

I quattro ragazzi di Londra hanno azzeccato il nome però.

Perché, a parziale difesa del negoziante di dischi di cui all’inizio, gli Only Ones unici lo erano davvero.

Disperati di una disperazione dandy e romantica.

Ribelli di una ribellione elegante e raffinata.

Gente fuori posto.

Ne’ coi buoni, ne’ con i cattivi.

Dicevamo dell’ apertura “sbagliata”.

Affidata ad un pezzo notturno come The Whole of the Law. Ci si aspetta si alzi il sipario e invece Peter Perrett lo sta già chiudendo. Sassofono languido, pennellate di chitarra, batteria smooth, voce dolente. Un pezzo da struscio.

Spiazzante, in un anno in cui gli album più belli si aprono con Uncontrollable UrgeFast CarsSafe European HomeNon-Alignment PactRadios in MotionPractice Makes Perfect. Anthemiche e simboliche già dal titolo.

Dopo due minuti e mezzo però arriva Another Girl, Another Planet. E davvero si vola verso un altro pianeta.

Una canzone perfetta, se mai ne è stata scritta una.

Dall’intro di chitarra stoppata allo scivoloso fraseggio che introduce alla strofa e poi da questo al ritornello appiccicoso e ancora da qui alla seconda parte del pezzo, gli stacchi che precedono il lancio dell’assolo e poi di nuovo in orbita verso la galassia del pop perfetto.

Un’altra ragazza, un altro pianeta. E tutti speriamo siano i nostri.  

Dopo di lei si atterra su Breaking Down. Altro pezzo spiazzante, visti i tempi, dove vengono fuori gli influssi hippiedelici portati dai veterani Mike Kellie (a lungo tra le fila degli Spooky Tooth) e Alan Mair (fondatore e bassista nei Beatstalkers, il più importante gruppo beat scozzese, dal ’62 al ‘69 NdLYS). Brano carico di suggestioni sixties con un organo e un ponte quasi doorsiani e la voce di Peter che dai toni morbidi della strofa si apre a quelli nasali dell’inciso.

City of Fun, a ruota, è uno dei migliori “scarti” degli England‘s Glory.

Un boogie a rotta di collo guidato dalle chitarre sicure di Peter e John Perry attraverso i campi di pailettes dei T. Rex e degli Spiders from Mars, quelli pieni di rifiuti urbani dei Dead Boys e degli Heartbreakers o quelli di fili elettrici dei Television con i quali ultimi la band si imbarca nel suo primo tour a promozione del disco e con cui condividono l’amore per certe cavalcate chitarristiche dell’acid rock californiano degli anni Sessanta. Grateful Dead, Buffalo Springfield, Quicksilver: The Beast le sfoggia illuminate dai bagliori dei quartieri a luci rosse di Londra.

Altrettanto schizofrenica la seconda facciata del disco, divisa tra rapidi e schizoidi brani dal taglio punk come Language Problem (la cosa in assoluto più assimilabile al concetto estetico ed espressivo del punk mai inciso dal gruppo, NdLYS) e The Immortal Story e fantastiche ballate urbane come No Peace for the Wicked o It‘s the Truth.

Se non sapete in quale scaffale metterlo, mettetelo pure nel mio.

Reparto “dischi fondamentali”.

 

Gabbiani con le ali sporche di catrame, gli Only Ones regalano al 1979 il loro album-capolavoro, finito chissà in quale anfratto della memoria collettiva. Oscurato forse dalla grandezza di un singolo inarrivabile qual era stato Another Girl, Another Planet, che avrebbe oscurato chiunque, figurarsi le sorti di una band che sembrava predestinata ad una eclissi junkie inspiegabile, viste le qualità artistiche che avrebbero dovuto alzare la storia della band molte spanne sopra la media delle band new-wave cui il destino avrebbe riservato ben più fulgida e spesso duratura fortuna, e a disintegrarsi sul guard-rail senza riuscire ad oltrepassare il confine del loro romanticismo tossico borderline che si respira a pieni polmoni dentro Even Serpents Shine, perfetta caramellatura sul rock ‘n’ roll del maestro Johnny Thunders.

Un disco torbido eppure di una avvenenza narcisa e dionisiaca, il secondo Only Ones. Ravvivato da un torrente di tastiere sgorgato chissà come da qualche sorgiva sixties come quello che scorre su Flaming Torch, da qualche piccolo passo di bolero, da fortunali di chitarre che sospingono i bellissimi intrecci di voci che colorano canzoni come No Solution e Programme, punk più nei titoli che nei risultati o che scivolano languide sulla Out There in the Night dedicata da Peter Perrett al suo micio o nel “quasi” muto strumentale di coda in cui Peter ci priva del piacere della sua voce da angelo bello e dannato, ravvivando il desiderio di ricominciare da capo il naufragio dentro questo mare dove i serpenti brillano, prima di stringersi al collo.   

 

Quando nel 1981 Johnny Marr, pochi mesi prima del fatidico incontro con Morrissey che si concluderà con la nascita degli Smiths, viene arrestato per aver rubato un’opera d’arte di LS Lowry, finisce in gattabuia con tutto quello che si trova addosso. E quel che si trova addosso sono un paio di Clarks, un paio di jeans ed una T-shirt di Baby’s Got a Gun degli Only Ones. Johnny Marr segue la band dei fratelli Perrett con un fanatismo che ha quasi dell’ossessivo, non mancando mai un loro concerto nel Nord-Ovest dell’Inghilterra.  

In quel 1981 e proprio con quel terzo album però gli Only Ones sono arrivati al capolinea. Con ancora un sacco di belle parole sulle labbra di Peter Perrett, incrocio perfetto fra Barrett e Thunders e una manciata di canzoni torbide ed eleganti come il piscio di un dandy. In questo caso, per la prima volta, abbinate ad un pezzo altrui (Fools di Johnny Duncan cantata assieme a Pauline Murray dei Penetration che avrebbe potuto diventare una canzonetta di successo, ma non lo ha fatto). Canzoni che in qualche occasione (la bella Re-Union è una di queste) ricordano molto da vicino le sghembe impronte lasciate fresche sul suolo inglese dai Soft Boys.

Trouble in the WorldThe Big SleepWhy Don’t You Kill YourselfBaby’s Got a GunMy Way Out of Here e la malatissima Your Chosen Life (finita a fare da scialle alla versione 7” di Trouble in the World e poi aggiunta alla ristampa su CD) sono le ultime stelle cadenti che solcano il cielo sopra Londra in quell’inverno del 1980.

Poi il cielo collassa sopra gli Only Ones.

 

Quando nel 2004 i Libertines lo citano tra i loro eroi, molti pivellini passati da qualche mese a sfogliare il NME o Rumore si guardano attorno smarriti ed increduli. Who the f**k is Peter Perrett???? All’epoca Peter era uno che aveva già scritto una delle più belle canzoni di sempre, che aveva già sciolto due bands, che era riemerso dal nulla dopo 13 anni di silenzio per ripiombare nell’oscurità per altri dieci, prima che uno spot della Vodafone gli mettesse finalmente in tasca qualche meritato spicciolo per l’uso massivo di Another Girl, Another Planet. Woke Up Sticky era il disco che aveva spaccato il silenzio, nel ’96: un disco in cui l’amore per Barrett e Lou Reed si manifesta in 11 pezzi che lo avvicinano all’estro onirico di Robyn Hitchcock e Paul Roland e arricchiscono il suo breviario di rock decadente con due pezzi come Falling (con un attacco forgiato sul prototipo di Ag/Ap) e Land of the Free. Ecco chi ca**o era Peter Perrett.

 

Vieni qui Peter, fatti abbracciare.

Dove sei stato? Perché sei andato via senza dire un cazzo di niente a nessuno?

E questi sono i tuoi figli, Peter? Che ragazzoni che si sono fatti!

Ti trovo bene, anzi benissimo.

Sai che mentre non c’eri è passata una tua canzone in tv? Così tante volte che qualcuno ha finalmente comprato quel disco. E lo so che avrebbe dovuto farlo molto tempo prima, ma lo sai com’è fatta la gente, no?

Sai che invece adesso la tua nuova etichetta ha mandato assieme al disco una bella cartella stampa per spiegare ai giornalisti chi sei, cos’hai fatto, quello che hai scritto? Sai che l’hanno usata per scrivere del tuo nuovo disco un po’ dappertutto? Sai che continuano a paragonarti a Lou Reed, nonostante tutto?

E tu, invece?

Hai ripreso la chitarra?

Hai risolto quei problemi alla voce?

E quegli altri di cui si diceva in giro?

Non importa. Siediti e fammi sentire le tue nuove canzoni.

Sai che mi piacciono? Le trovo eleganti, le trovo confidenziali.  

E sai che sono felice di non averle dovute consumare in fretta, come tutti, di non averle dovute umiliare con una sveltina, solo per scriverne nei tempi previsti, nei modi previsti, in maniera prevedibile?  

Mi hanno fatto compagnia per mesi, i tuoi brandelli di cuore messi ad asciugare sul filo da bucato di How the West Was Won. Hanno rispettato i miei tempi e io ho rispettato il tempo che loro meritano. Hanno assecondato i miei sbalzi di umore e io ho trovato rifugio nei tuoi, come si dovrebbe da buoni amici.

Sai che sono canzoni che sembrano essere state lì da sempre, che aspettavano solo tu le raccogliessi da qualche cassetto, da qualche pattumiera, da qualche piega di quel letto dove forse sei stato per anni bruciando in polvere quegli spiccioli di diritti d’autore che meritavi?

Sai che sembrano davvero piovute da un altro pianeta?

Quindi ci sei andato alla fine?

Non importa. Vieni qui, fatti abbracciare.

 

Dopo aver abdicato dal mercato musicale per decenni, Peter Perrett sembra aver ritrovato la voglia di creare e di condividere.

Lui ringrazia il cielo per essere sopravvissuto. Malconcio, ammaccato ma vivo.

Noi ringraziamo il cielo per essere sopravvissuti con lui, di potergli attaccare addosso un numero sufficiente di cerotti e di bende che possano nascondere le ferite più evidenti e di poterlo infine riabbracciare.

Con Johnny Thunders non ne avemmo il tempo.

Con Lou Reed non ne avemmo il modo.

Sciocco sarebbe dunque, lui che a buon ragione può rappresentare l’anello placcato in oro che lega tutti e due, lasciarsi scappare questa occasione. Tanto più che Humanworld lo ritrae in una dimensione meno intimista rispetto al disco di due anni prima (però che cosa non è Heavenly Day se non uno strascico glam di un Lou Reed che ha appena lasciato il palco con la consapevolezza dolceamara che alla fatta dei conti a lui è andata meglio di tanti suoi compagni dei tempi in cui il mondo sembrava ancora tutto da conquistare e che adesso è invece un sepolcreto di croci?, NdLYS) e più desiderosa di confrontarsi con un sound da rock-band, finendo per mostrare in almeno un paio d’occasioni i denti, seppur cariati, degli Only Ones e di toccare, in questo suo nuotare nelle vasche del rock inglese, il bordo piscina affollato di synth degli Psychedelic Furs e, dall’altra parte, quello ingombro di chitarre dei primi Verve. Noi dalla tribuna continuiamo ad applaudire, anche quando qualche bracciata sembra più impacciata del solito. Perché Peter è un fuoriclasse, uno che ha una voce capace di placarti l’anima pur raccontandoti storie di tormento e di sogni che fanno il rumore di vetri infranti.

O quel rumore era quello di un cuore?

Probabilmente il suo.

Forse, il mio.     

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

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BLACK SNAKE MOAN – Fire/What You See (Hypnotic Bridge) / LE MUFFE – You Fly Away/Bif!!! (Area Pirata) / RAY DAYTONA AND GOOGOOBOMBOS – Sister (Surfin’ Ki)

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Continuando ad alimentare l’attesa per il suo terzo album con la strategia crudele del “doppio singolo”, ovvero un 7” con due composizioni di egual statura e medesima, ispirata fattura, Black Snake Moan ci porge altri due splendidi boccioli dal suo giardino fatato. Su entrambi gli episodi il suono della chitarra si smarca dalle ruvidezze blues del passato concentrandosi su un arpeggiato folk sostenuto ora da un organo, ora da un flauto che conferiscono ai due pezzi quella placida deriva psichedelica che ricorda ora i Baby Woodrose, ora i Doors, ora gli Stones di Ruby Tuesday. La levatura del musicista di Tarquinia si dimostra sempre più a fuoco, tanto da potersi concedere il lusso di semplificare al minimo le strutture armoniche ed elaborare poi su queste una suggestiva intelaiatura di bellezza sterminata, seppur nei toni moderati e quasi confidenziali che la sua esperienza di abile one-man band riesce ad elaborare con estrema e pregnante naturalezza. 

Credo invece siano nuovi al piccolo formato Le Muffe, autori di tre album di scalmanato beat che qui si cimentano con due tracce come al solito burrascose. Si tratta come sempre di un dinamitardo garage-rock come lo si suonava dentro la pieve di roccia dei Monks. You Fly Away e Bif!!! sono due sassi per chi ha cuore di pietra, dove anche i controcanti sembrano intonati da un coro di moai.  

Sono tre invece le tracce del nuovo singolo dei GooGooBombos, intenti a perlustrare sia il loro lato più sixties-punk, sia quello surf mai abbandonato, più un omaggio ai mitici Zombies con una versione graffiante di Just Out of Reach. Come sempre, ogni qualvolta la band toscana decide di atterrare sul nostro pianeta di merda e carbone sembra provenire dal pianeta dell’ultracool. Bentornati.

                                                                                          Franco “Lys” Dimauro

THE dB’S – Falling Off the Sky (Bar/None)

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A venticinque anni da quando si erano mandati vicendevolmente a fare in culo, Chris Stamey e Peter Holsapple tornano a stringersi le mani e, con quelle, lavorare ad un nuovo disco dei dB’S. Un ritorno che si apre alla grande, con una sorta di versione in technicolor della Mr. Soul dei Buffalo Springfield i cui piccoli cristalli sembrano risplendere dentro gli specchi del caleidoscopio di That Time Is Gone che ne utilizza la struttura armonica per realizzare un nuovo classico, forse l’ultimo della band newyorkese, con tanto di organo retroattivo pilotato da Chris.

Sul resto del disco, anche se l’organo riappare di tanto in tanto, sono invece fiati (trombe, corni francesi, sassofoni, flauti) e archi (viole e violini) a farla da padrona, con l’occhio che sembra guardare più insistentemente all’Inghilterra (quella remota degli Who e dei Beatles più sofisticati ma anche quella meno remota di gruppi come Oasis e degli altri “apostrofati” La’s) senza però dimenticare, come purtroppo in molti hanno fatto, la lezione enorme di Paul Simon e Art Garfunkel negli anni in cui il Central Park della loro città “diecimila persone (forse di più)” osarono turbare il suono del silenzio, spezzandolo.

Ora i dB’s lo fanno di nuovo.   

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

RAIN PARADE – Last Rays of a Dying Sun (Label 51 Recordings)

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I musicisti della nostra giovinezza invecchiano con noi e, come noi, non vogliono saperne di adottare il silenzio al posto del rumore dei “vecchi tempi”, anche quando a volte sarebbe molto meglio. Non è il caso dei Rain Parade, che con Last Rays of a Dying Sun dimostrano di poterci ancora deliziare, anche quando come nel caso della title-track le trappole diacroniche li fanno suonare come una versione neo-psichedelica degli Oasis. Nonostante la morte di David Roback e gli anni che lo separano dal nucleo storico della loro produzione, la “visione” musicale dei Rain Parade riesce a mantenersi intatta malgrado appaia, alla luce del nuovo secolo, un po’ più frangibile.

Una sensazione accresciuta dal fatto che la band sceglie quasi sempre un registro di ballate folk-rock dal passo moderato se non addirittura rallentato all’inverosimile (Forgetfulness) che non ne agevola la resa complessiva, soprattutto oltrepassata la soglia della prima parte del disco, chiusa idealmente da una magistrale Got the Fear e strutturalmente dal soffice cuscino di Share Your Love, con le due Peterson delle Bangles ai cori e i sonaglini della loro Walk Like an Egyptian riproposti in apertura.

Nonostante questo lieve calo d’intensità, Last Rays of a Dying Sun ci racconta di un tramonto che riesce ancora, se non a toglierci il fiato, a pilotare efficacemente il nostro respiro. E, con esso, il ventaglio dei nostri ricordi.    

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

GAME THEORY – Lolita Nation (Enigma)

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Ormai conscio delle possibilità offerte da un rinnovato giro di musicisti, Scott Miller realizza il lavoro più ambizioso dei Game Theory: un doppio album che resterà il primo e unico lavoro in studio a godere di quel formato nel catalogo della Enigma. Il disco è un pregevole guazzabuglio di suoni neo-psichedelici (il piccolo diadema di Nothing New), piccoli sketch sonori (fra cui, anni prima dei R.E.M., quello riguardante il giornalista Dan Rather di Kenneth-What’s the Frequency?), frenesie power-pop, assalti chitarristici (Dripping with Looks, Little Ivory, il rumorismo lo-fi di The Waist and the Knees che sembra una previsione meteo dei dEUS, NdLYS), country filiformi (Toby Ornette), siparietti alla Robyn Hitchcock come One More for Saint Michael e un paio di numeri scritti e cantati dalla neo-assunta Donnette Thayer che avvicinano il suono del gruppo a quello delle Bangles.

Non è tutto oro colato, ma Lolita Nation celebra i Game Theory come una band eccentrica e con una grande curiosità e ambizioni da sfamare. E in parte, già sfamate.  

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE MYSTERY LIGHTS – Too Much Tension! (Wick)

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Californiani di origine ma ormai stanziati a New York i Mystery Lights regalano al 2019 un disco pieno di suggestioni retroattive elaborate che sembrano a tratti una versione psichedelica dei mai troppo glorificati fringuelli del gospel pagano Make-Up o dei misconosciuti Crack Pipes. Non vi inganni però questa similitudine del tutto soggettiva, perché Too Much Tension! usa un linguaggio espressivo mutuato dal folk psichedelico e in parte dal garage rock che sono da sempre i pasti preferiti della band. Il suono ha però un’espressività che ne accresce la seduzione, con un uso mai banale dell’effettistica e una spazialità originalissima, come di una cavernosa tridimensionalità che funge da riverbero naturale alle trame sonore di ogni singolo pezzo.

Il risultato è un disco dal fascino avvolgente, anche quando dai cespugli affiorano dei rovi più affilati degli altri. E tuttavia è bello tirar fuori questi frutti succosi anche con le mani graffiate.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro