BRUCE SPRINGSTEEN – The River (CBS)

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La poetica romantica ed amara della vita ordinaria è ciò che scorre lungo le acque di The River, summa di tutta la prima vita artistica dello Springsteen degli anni Settanta e ormai pronto al salto dal trampolino.

Bruce canta di gente vestita come lui, jeans laceri e camicia a quadri ed evita lo scollamento fra divo radio-televisivo e pubblico imposta dal mercato musicale. Riparte dal basso, perché sa che c’è un pubblico che ha bisogno di sentirsi rappresentato, che ai paradisi artificiali preferisce ascoltare storie di fallimenti e riscatto, di lavoro mal retribuito e pranzi festivi messi insieme a fatica. Di storie uguali alle loro insomma, periferiche al mondo dorato dei tropici che non hanno ne’ modo ne’ voglia di raggiungere. Mogli, mariti, figli che si affidano alla sorte giocando alla roulette nel Gran Casinò della vita e che faticano a trovare un Dio che li guardi con benevolenza. Gente cui il sogno americano ha voltato le spalle ma che aspetta nonostante tutto che la terra delle opportunità si giri dalla loro parte.

Canzoni che però hanno sempre un tono di speranza, personaggi che non smettono di aggrapparsi al salvagente della fiducia in un sogno e che se lo vedono lontano, nuotano fino ad afferrarlo. E in questo, la musica del Boss ha la stessa forza trascinante ed ottimista del gospel sebbene il racconto resti quello tipico della folk-music e il modulo espressivo cerchi di raccordarsi al rock and roll di Buddy Holly e alla già lunga tradizione della musica popolare americana. L’uomo che secondo le parole di Landau tiene in mano “il futuro del rock ‘n’ roll” è dunque più che altro una proiezione del passato, un tentativo fortunato di cristallizzarlo in un eterno presente e che per questo raccoglie i consensi degli ultratrentenni che sono rimasti ancorati a quell’immaginario bocciato da MTV e che con The River hanno adesso in mano il loro feticcio proletario. I giovani si tengano pure i loro eroi con i capelli cotonati e le spalline sotto le giacche stirate con l’appretto.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

GEORGIA SATELLITES – Georgia Satellites (Elektra)

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Recuperati già morti dal loro manager, i Georgia Satellites si videro realizzare a loro insaputa un mini-album che li costrinse a serrare nuovamente le fila e dare seguito al contratto con la Elektra che Kevin Jennings era riuscito a strappare dopo il discreto successo di Keep the Faith e alle potenzialità di Keep Your Hands to Yourself, riproposta subito in apertura dell’album omonimo pubblicato nel 1986 e che sfonda letteralmente le classifiche.

Siamo dentro un southern-rock che esonda da un lato nello sleaze e dall’altro nel blue-collar, con un bel lavoro di chitarre unte, alla bisogna pronte a passare alla modalità slide per ottenere il massimo dell’efficacia, come nella Can’t Stand the Pain dove si intravede in nuce l’altra band di Atlanta pronta a raccoglierne e perpetrarne l’eredità, ovvero i Black Crowes. Le due band, del resto, vengono da basi comuni che affondano nel suono inglese degli Stones e dei Faces, nel guitar-rock degli stati del Sud, nel boogie-blues di Ray Vaughan.

Malgrado una produzione e soprattutto un missaggio un po’ enfatici, il salto verso il mainstream della Elektra non è un salto deciso e la verve ancora ruspante del gruppo riesce a portare a casa un ottimo risultato di roots-rock stradaiolo e “sudista”. Poi la macchina lentamente si ingolferà ma fin qui i Georgia Satellites dimostrano di essere capaci di rinnovare uno stile già musealizzato da tempo e che valeva la pena abbellire un po’ per riportarlo ai vecchi fasti.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

JASON AND THE SCORCHERS – Still Standing (EMI America)

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Still Standing segna in maniera indelebile ed evidente il momento della gentrificazione del cow-punk americano: le chitarre assumono smorfie da sleaze rock, la ritmica si fa incalzante e muscolosa, la voce solista cerca di adattarsi ad un ruolo da primattore finendo, come nel caso degli Scorchers, per creare un ibrido fra il vocalismo rockabilly e quello da performer da arena. È dunque una musica “di compromesso” che cerca di abbeverare il roots-rock non più nei pantani e nelle paludi ma negli abbeveratoi a parete delle stalle a stabulazione fissa.

Macroscopico sintomo di questo approccio è la cover di 19th Nervous Breakdown degli Stones che arricchisce la scaletta del secondo album della band di Nashville, ruggente di chitarre alla Hanoi Rocks. Allo stesso tipo di “trattamento” è sottoposto anche il materiale autoctono (ascoltare per credere Ghost Town o Shotgun Blues, quasi degli inni da biker che poco trattengono dei liquami roots del primo album, NdLYS), dimostrando come anche l’ultima strada di Nashville, quella da cui il gruppo spedisce la sua cartolina in chiusura dell’opera, sia stata ormai asfaltata.  

                                                                     Franco “Lys” Dimauro

MOJO NIXON & SKID ROPER – Root Hog or Die (Enigma)

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Il 1989 è l’anno chiave della carriera di Mojo Nixon: quello in cui viene chiamato a partecipare al film su Jerry Lee Lewis, quello in cui arriva in radio e su MTV con (619)239-KING salvo venire bannato dalla stessa pochi mesi dopo per il video di Debbie Gibson Is Pregnant with My Two Headed Love Child e a vita dall’anfiteatro del Wolf Trap National Park di Washington dopo un concerto ad altissimo tasso alcolico assieme a Violent Femmes e Pogues culminato con denti rotti, cocci di bottiglie e più che allusive dissertazioni sulla First Lady Barbara Bush. L’anno in cui il suo sodalizio artistico con Skid Roper si frantuma per sempre, proprio come le bottiglie di quel concerto con un ultimo disco e un concerto di addio assieme ai fIREHOSE e agli Screaming Trees.  

Insomma, sulla vetta del mondo come nello scatto di copertina di Root Hog or Die e subito dopo pronti a lanciarsi nel vuoto. L’ultimo album dei due scavezzacolli è il più ordinario del loro poker di long playing, con sporadici lampi di genio (I’m a Wreck, Debbie Gibson e la palude tenebrosa di Circus Mystery), un parodistico e alticcio tributo alla musica celtica derivata dall’assidua frequentazione con MacGowan come Pirate Radio e in generale la tendenza ad allungare il brodo, non più caldissimo, ben oltre la soglia dei cinque minuti (Burn Your Money!, High School Football Friday Night, She’s Vibrator Dependent, (619)239-KING, This Land Is Your Land, Chicken Drop). Non tutto funziona e non tutto diverte. E la tanto agognata telefonata del Re non arriva.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

DADDY LONG LEGS – Street Sermons (Yep Roc)

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In fatto di efficacia blues, i Daddy Long Legs sono ormai una certezza: un’armonica a bocca di grande prestigio (cui è dedicata l’intera Harmonica Razor) e un suono che viaggia a metà fra blue-collar rock e rockabilly, quasi fossero una nuova versione dei Dr. Feelgood.

Il fatto di essere una certezza, ovviamente, elide il concetto di sorpresa. E infatti Street Sermons ne è privo.

Chi volesse però un caldo concentrato di spericolate corse col culo poggiato sull’asse da lavare, qui avrà di che divertirsi a lanciarsi nel pendio, risalire in cima e lanciarsi nuovamente, fino a farsi piatte le terga. Pezzi come I’ll Die Too o Electro-motive Blues hanno quel leggero quid in più per tentare la corsa fuori pista, ma il resto viaggia nell’ambito dell’ordinario. E i Daddy Long Legs, volendo, possono fare molto ma molto di più.   

                       

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

MINUTEMEN – Blitzkrieg korps  

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L’amore per le miniature, per gli schizzi, per le macchie di colore, per i singhiozzi, per le sincopi, per i tic, per tutto ciò che è veloce e disarticolato e che può essere riassunto nel famoso motto di Muhammad Alì “vola come una farfalla, pungi come un’ape” e per cui i californiani Minutemen sono ricordati a posteriori e con cui segmentano l’hardcore a loro contemporaneo viene rappresentato nei diciotto nodi scorsoi di The Punch Line”, il posto dove punk e funk si scambiano l’iniziale tanto repentinamente che non riesci mai a cogliere il momento esatto in cui l’una ha avuto la meglio sull’altro e viceversa.

Quello del terzetto di San Pedro è un suono tarantolato.

Ogni round dura un minuto o poco meno, così come era stato per gli “incontri” di Paranoid Time e Joy, i due EP precedenti, esattamente pari al tempo concesso ai minutemen professionisti dell’esercito americano per prepararsi all’attacco.

Qualcuno chiuso anzitempo per KO.

Il diciannovesimo neppure giocato, per mancanza di avversari. Tutto l’incontro, continuando con le analogie boxistiche, si gioca e si registra in una sola notte. Anzi, in un solo quarto d’ora. Uno spicchio di orologio, e via.

Musicalmente parlando, in una sola session. Poco meno di otto spregiudicati minuti per ogni facciata.

Ad ogni canzone viene apposto un timbro altrettanto austero, spartano, severo: RuinsFanaticsSearchIssuedGamesBoilingStaticWarfareGravityTensionMonumentsDisguises. Macchie di calda ceralacca a sigillare quegli sputi di un minuto che sono il tempo massimo concesso all’esposizione di un concetto in piena epoca hardcore.

Search ce li presenta già come dei Talking Heads con la schiuma alla bocca ma il disco, nella sua lettura più immediata, è una cornucopia di bocconi punk/funk che verranno rimasticati e diluiti in pietanze più digeribili da una miriade di band crossover negli anni Ottanta, primi fra tutti i Red Hot Chili Peppers degli esordi. Molto spesso per un pubblico che non sapeva neppure che i Minutemen erano mai esistiti.   

 

“What Makes a Man Start Fires?” chiarisce gli intenti dei Minutemen e li allontana ulteriormente dall’hardcore per consegnarli più o meno definitivamente al neo- funk. Una musica sussultoria invece che perentoria, come era invece tradizione dell’hardcore. Progressista e disposta alla contaminazione quanto quella insegue una sua idea di comunità finendo per chiudersi dentro le gabbie che prometteva di far esplodere. Un sound più inclusivo e slegato dall’ortodossia punk.

È un sound più newyorkese che californiano, almeno fino a che non arriveranno i Red Hot Chili Peppers a rivendicare il trono del reame, andando a toccare con le radici le acque della no-wave e del nervoso art-rock dei Talking Heads. Un suono che verrà raccolto, al pari di quello delle formazioni dell’area di Leeds (Gang of Four, Delta 5) come eredità emotiva e concettuale solo molti anni dopo, da una band come i Fugazi (che nascono praticamente dentro Plight, NdLYS). Sono tizzoni di lava che rimbalzano di mano in mano per evitare le ustioni sulla pelle. Canzoni imprevedibili e tentacolari, seppure stavolta accolgano più spesso e più agevolmente la melodia dentro le loro strutture poligonali e dai titoli sempre più fantasiosi, che devono più a quello che aveva preceduto il punk (il prog, il free-jazz, il funky) che a ciò che lo aveva seguìto (ovvero l’hardcore, con cui l’unica analogia ravvisabile è nel minutaggio infinitesimale dei pezzi).

Una rabbia senza conati di vomito.

E che pure contorce le budella.      

 

Uno dei dischi fondamentali del punk americano degli anni Ottanta non ha dentro neppure una canzone punk. Come la migliore crema spalmabile alla nocciola non ha dentro neppure una nocciola. Eppure, ne ha tutto il sapore. Double Nickels on the Dime è un disco di miniature assortite che sovverte le regole dell’hardcore americano come fece Sandinista! per il punk inglese. Prima fra tutte, quella dell’analfabetismo musicale che sembrò la dottrina fondante del punk e che invece non lo era affatto.

Mike Watt è alla guida del suo maggiolino e ci guida alla scoperta di quest’America marginale. Guidando esattamente a 55 mi/h. Rispettando dunque apparentemente le regole imposte dalla legge ma stravolgendone ogni forma dentro quell’abitacolo in cui la follia creativa fatica a restare imprigionata. Straripando.

Bossanova, country, funk, jazz, freak-rock, folk, tex-mex, southern rock.

I quarantatre bozzetti che lo compongono sono un puzzle spiazzante dove tutta la musica americana diventa un’unica comunità dove chicani, ispanici, neri, invasori stanno fianco a fianco in un abbraccio nervoso.

Non ci sono territori occupati, nella musica dei Minutemen.

Non ci sono terre da conquistare. Perché non ci sono frontiere.  

Non ci sono carri armati.

Mike Watt sorride dallo specchietto retrovisore.

Viene a sottoscrivere la pace che la sua terra ha esportato con le divise mimetiche.

 

Per 3-Way Tie i Minutemen si trasformano nei Los Lobos o giù di lì. Chi si avvicinasse a loro con quello che, per colpa del destino, sarà il loro ultimo lavoro in studio, stenterebbe ad intuire la forza impattante e il disturbante eccesso pirotecnico dei primi album, mettendosi in casa l’ennesimo disco di roots rock un po’ sciroccato e molto nostalgico e in cui il funk-rock, quando c’è (come su No One), sembra essere diventato un innocuo pasticcio metal-rap come quelli che i Red Hot Chili Peppers stanno sperimentando a qualche miglio da San Pedro. La forza rivoluzionaria del terzetto californiano appare del tutto placata, almeno a livello musicale. Le belle canzoni si contano sulle dita di una mano (Stories, Just Another Soldier, The Price of Paradise) ma si tratta perlopiù di ballate che nulla hanno a che vedere con i Minutemen storici e più con la rivisitazione delle vecchie musiche americane di Meat Puppets, Gun Club, Los Lobos e tra le cover compaiono pure quel vecchio rottame di Have You Ever Seen the Rain? e l’hard rock a rotta di collo di The Red and the Black dei Blue Öyster Cult aggiungendo sgomento alla sorpresa.

Le lingue buone, addolcite dalla commozione per la tragica scomparsa di D. Boon, ne parleranno come di un capolavoro. Io continuo a rimpiangere i pugni in faccia dei primi dischi e a rigirare tra le mani la copia spiegazzata di un testamento che sembra più un apocrifo che un originale.   

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BRUCE SPRINGSTEEN – Born to Run (Columbia)

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All’indomani di Pat Garret & Billy the Kid, il contratto di Dylan con la Columbia va in crisi. La Columbia ha bisogno di rimpiazzare il suo pupillo e lo fa mettendo sotto contratto Bruce Springsteen e promuovendolo come “il Dylan del New Jersey”. Così non è, ovviamente: Springsteen non è e non sarà mai il nuovo Dylan. Diverso il suo immaginario, diverso il suo modo di suonare e cantare, diverse le sue radici, diversi i suoi rami, il più florido dei quali fiorisce nel 1975 e si chiama Born to Run. Che viene venduto come gli altri come un disco di Springsteen ma che è in realtà l’album di un gruppo. Una band fra le più solide della storia della musica americana, non una backing-band qualsiasi, tanto da finire nella Hall of Fame, quindici anni dopo l’ingresso del Boss. “Nascosta” sulle note di copertina, secondo il volere della casa discografica, la E Street Band “esplode” e si palesa con furiosa prepotenza dal vivo. E nel 1975, l’anno di Born to Run, i concerti di Springsteen e della sua band arrivano a colonizzare anche il vecchio continente mettendo sullo stesso palco abiti proletari da camionisti in birreria e eleganti vestiti bianchi da papponi neri: tutto il mondo della periferia americana in una sola occhiata.

Sui solchi di Born to Run di Dylan neppure l’ombra. Quelle di Springsteen non sono canzoni di protesta ma una raccolta di racconti sul sogno americano, ammaccato come una Cadillac di quarta mano, col suo cambio inceppato, le ruote un po’ sgonfie, la pelle dei sedili consumata, lacerata come l’anima di chi le scarrozza lungo le strade della città. Laddove il cuore si ammalinconisce, sembra piuttosto di incontrare Tom Waits. È l’America dalle pareti annerite. Che ha però una sua epica di riscatto, trionfale quanto quella della sconfitta. Jungleland, Backstreets, Born to Run, Night, Thunder Road, Tenth Avenue Freeze-Out sono piene di strade su cui correre o attraverso cui scappare, di vicoli in cui nascondersi, di autostrade dove schiantarsi, se capita. Dentro una decappottabile rosa.

Canzoni piene di tutti gli accidenti della vita, di sgambetti, di lavori malpagati, di cuori smangiucchiati dalla vita. Raccontate in maniera maestosa. Come se la Statua della Libertà avesse la stessa dignità di chi ogni giorno quella libertà se la deve conquistare col sudore della fronte, restando senza un riparo mentre il cielo piscia su di loro.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE DEL FUEGOS – Stand Up (Slash)

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Turnisti ed ospiti di lusso per il terzo Del Fuegos, da Tom Petty a Miss Merry Clayton di stonesiana memoria, da James Burton a Willie Green Jr del giro di Ry Cooder. Un investimento che la Slash può permettersi, soprattutto avendo le spalle coperte dalla Warner Bros. ma che risulterà un investimento azzardato: Stand Up, il disco che nelle intenzioni vuole mettere in luce la blackness nascosta nella scrittura dei Del Fuegos fallisce il colpo tre volte: la prima nelle vendite, la seconda sugli equilibri del gruppo che si spaccherà subito dopo i primi modesti resoconti di mercato e la terza, sul riscontro della critica che si accanisce sul tentativo del gruppo di Boston di dirottare il suono roots dei primi due dischi sulle comode corsie di un rock da FM e che ha qui nell’orribile News from Nowhere il suo momento più basso.

Stese al sole alla ricerca di un’abbronzatura soul, le canzoni dei Del Fuegos vengono in parte bruciate dai raggi UV e sopraffatte da quella prepotenza con cui le produzioni musicali del periodo pretendono di conquistare gli abitacoli dei grandi mammiferi su gomma che invadono le strade americane, cercando di mordere l’asfalto anch’esse come e più di loro. Paradossalmente la cosa che meglio si lascia ricordare è l’unica eccezione all’organica sequenza del disco, ovvero quella He Had a Lot to Drink Today tutta suonata su cocci di cristallo, tutta vestita come attori d’operetta che si sono appena struccati e adesso bevono dalla bottiglia del dolore.

E, appena sotto di questa, le cinematografiche A Town Called Love e I’ll Sleep with You. Pur senza essere esenti da difetti di filiazione da certo rock di cui dicevamo prima.

Quanto al resto, riusciranno a fare molto ma molto meglio i Black Crowes della compagnia sudista, spostando i nostri sguardi da Boston alla Georgia.        

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

CREEDENCE CLEARWATER REVIVAL – Ombre nel canneto

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Ciò che il resto del mondo importa dalla rivoluzione californiana degli anni Sessanta è qualcosa che con quella rivoluzione non ha nulla a che spartire, ne’ a livello filosofico ne’ in ambito strettamente musicale. Fatte salve le vendite mainstream occasionali dei Doors di Light My Fire e dei Byrds di Turn! Turn! Turn! la vera dominatrice delle chart, fra tutte le formazioni che hanno infiammato i palchi dei grandi festival, è una band “volgarmente” restauratrice. Una formazione che piuttosto che volare in alto come molte delle formazioni della Summer of Love, preferisce viaggiare verso sud su scomodi e inquinanti trabiccoli diesel. L’originale suono della band, ovvero un validissimo garage-rock portato su disco e sul palco sotto il nome di Golliwogs, si è via via sempre più sporcato con la musica nera, quella della Louisiana, quella di New Orleans, quella del Delta, quella di Porterville che guarda caso è la stessa città a dare il titolo all’ultima canzone incisa come Golliwogs e la prima ad essere ripubblicata dalla Fantasy sotto il nuovo nome di Creedence Clearwater Revival. Tom Fogerty ha intanto lasciato il posto di cantante al fratello John il cui timbro rauco e verace si combina alla perfezione con i timbri paludosi della musica che stanno elaborando. Un suono che del misticismo lisergico degli altri compagni californiani non sa che farne. Il suono dei Creedence è un ritorno agli elementi base non solo del rock ‘n’ roll ma anche a quelli classici della materia.

Aria, fuoco ma soprattutto terra e acqua.

Terra da affondarci i piedi, acqua da inzupparsi come in un rito battesimale.  

Terra e acqua come quelle che segnano il lungo viaggio del Mississippi.

E ad avvolgere questa distesa di paludi, acquitrini, campi da coltivare, fattorie, boschi e piogge rigeneranti il turbante color sabbia di Marie Laveau e il macabro mantello di Bayou John, il grande evocatore di spiriti della Louisiana.

La musica dei Creedence Clearwater Revival esercita sin da subito un appeal grandissimo, ma non è musica “per giovani”. Anzi, mi correggo: la musica dei Creedence esercita un appeal grandissimo perché non è musica “per giovani”.

È il corpo (che si credeva) morto del passato che riemerge dalle acque dopo che il sogno d’amore delle comunità hippie è evaporato, dimostrando che, svanito l’inganno, quello che resta è un mondo immutabile e forse proprio per questo, rassicurante. Una tecnica che la band californiana affinerà l’anno successivo in un trittico mozzafiato di grandissimo successo e che in questo omonimo disco d’esordio emerge ancora in sordina sul materiale autoctono mostrando invece un’ottima carburazione sui pezzi altrui (Susie QI Put a Spell on YouNinety-Nine and a Half), quelli dove il gruppo inizia a sfoderare il suo mood e a liberarsi dalle ultime (e uniche) esfoliazioni acide del suo repertorio.  

 

Difficile stabilire quale sia il miglior album dei CCR, visto che una vera flessione artistica si registrerà solo con l’uscita di Mardi Gras, settimo ed ultimo album per la formazione californiana. Però, se dovessi sceglierne uno, il mio voto andrebbe probabilmente a Bayou Country. Nonostante contenga uno di quegli standard che i gruppetti da birreria ci obbligheranno ad odiare come Proud Mary.

Restituzione e restaurazione sono le parole chiave del secondo album dei fratelli Fogerty.

Bayou Country è infatti il disco che si fa carico di restituire il rock ‘n’ roll al popolo americano riportandolo ai suoi elementi lirici e musicali di base. L’intuizione dei fratelli Fogerty è altrettanto semplice ed azzeccata: di tutte quelle compagini di giovani hippie che sciamano per l’America annunciando l’era dell’Acquario resterà ben presto solo qualche foto da mostrare ai figli e che si tornerà a viaggiare per le strade d’America trasportando carne di manzo, fieno, cibo in scatola e tabacco da un lato all’altro degli Stati Uniti. La musica dei Creedence è fatta per loro, rozza e disadorna, spogliata sia delle utopie dei figli dei fiori che della sensualità ammiccante del rock ‘n’ roll degli anni Cinquanta. Sporca come i loro camperos quando attraversano i fienili e lo sterrato delle strade d’America.

I Creedence suonano per loro e vestono come loro. Camicie di flanella, baffi, capelli incolti, pantaloni da campiere, giacche di renna, cinturoni di cuoio, cappelli di feltro o da cowboy.

Non sono i 400.000 assiepati davanti al palco di Woodstock ma sono gli altri.

E gli altri sono duecento milioni di individui.

Quella è la loro forza. A differenza di quelli di altre band, i fan dei Creedence possono identificarsi totalmente con i loro idoli. Sono pari a loro. Solo, suonano e cantano canzoni stramaledettamente belle. Canzoni che parlano di cose che chiunque tra i loro ascoltatori può capire al primo ascolto. Niente tappeti che volano o bianconigli, nessuna porta della percezione da aprire o convulsioni da sofferenze amorose. Nei Creedence tutto è schiettezza e il loro pubblico sa che possono fidarsi di Fogerty quando canta dei lavapiatti di Memphis, degli uomini del voodoo di New Orleans o quando aspettano il loro turno per morire su un’autostrada.    

 

Uscire dalla palude attraversando un fiume verde, approfittando della bella stagione e senza indugiare oltre. Ecco così che a pochissimi mesi da Bayou Country i Creedence si trovano ad attraversare il Green River.

Strofinano i piedi sull’erba. Anche se sei stato nel bayou non li avrai mai puliti del tutto. E infatti Green River qualche sporcizia se la porta dietro, solo che stavolta il disco ha il passo svelto, rapido, spedito di chi non vuole indugiare oltre. Il passo di chi ha capito che ha in mano le carte per vincere. E molte delle canzoni della band (Cross-Tie Walker, Green River, Bad Moon Rising, Commotion) sembrano adesso avanzare fiere assecondando questa necessità travestendosi in una sorta di alter-ego country del blues dei Cream (Sinister Purpose, Tombstone Shadow).

Le ombre del grys-grys sembrano dissiparsi e tutto, anche la copertina, appare adesso più nitido e definito. Tolti gli spilli voodoo dagli attributi, i fratelli Fogerty dimostrano ancora di essere ben dotati.

 

Solo tre mesi separano Green River da Willy and the Poor Boys. Ma a separare l’uno dall’altro c’è soprattutto il Festival di Woodstock, al quale la band viene chiamata a partecipare e quindi ad esibirsi nella notte fra il Sabato e la Domenica, dopo l’estenuante set dei Grateful Dead. Nascosti dalle ombre della notte, quando metà del popolo hippie che non li ha mai amati dorme già sognando pace e amore e dopo essersi ingozzato però di sesso e marijuana. L’esibizione è incerta, con la band provata da una giornata di gozzoviglie. Tanto che il concerto non verrà nemmeno porzionato per essere inserito sul film e sul disco commemorativi salvo poi essere pubblicato per intero solo cinquant’anni dopo, quando la generazione di Woodstock è ormai comodamente in pensione e parte di essa ha finalmente raggiunto quel paradiso che volevano ripristinare sulla Terra.

Per nulla scalfiti da quell’esperienza i fratelli Fogerty tornano ad affondare i piedi nella terra delle fattorie americane con un disco che riconferma i margini di una musica che parla più alle classi salariate della middle-age che ai giovani stesi al sole. Sono canzoni che parlano di fatica e di terra, dell’orgoglio del possesso e della maledizione della perdita e della rovina che ne deriva.

Trattori, campi di cotone e musicisti da strada al posto di centauri, lingue di asfalto e comuni hippie popolano l’immaginario dei Creedence.

Sogni concreti.

Nessun bianconiglio da inseguire fin nella sua tana.

Nessuna pillola, nessuno zuccherino.

 

Nel 1970 i Creedence sono ormai una pianta infestante che ha raggiunto proporzioni mostruose. Il loro repertorio viene adottato da centinaia, forse migliaia di band da bar in tutto il mondo e il gruppo stesso guardato come esempio vivido di una coerenza inappellabile e di una creatività straripante. Possono permettersi di essere banali come una formazione doo-wop qualsiasi o una cover-band di Presley (Ooby Dooby, My Baby Left Me), di scrivere classici elogi alla vita on the road (Travellin’ Band, Up Around the Bend) o di rituffarsi nel suono paludoso degli esordi senza neppure togliere i vestiti (Run Through the Jungle, I Heard It Through the Grapevine), mettere in scena la rock band più rassicurante del mondo (Long As I Can See the Light) o quella più minacciosa (il crescendo chitarristico di Ramble Tamble, epocale tripudio elettrico che contiene già tutta la genetica dei Dream Syndicate).

Cosmo’s Factory mostra con grandissima abilità e sicurezza tutte queste facce, continuando a pagare tributo ai padri (ben quattro le cover sul disco), come una garage-band qualsiasi. Come se fossero ancora i Golliwogs che suonano nel college della loro città.

I Creedence di Cosmo’s Factory non si prendono rischi. Scendono ostinati, implacabili e decisi come una truppa di soldati confederati. Ad armi spianate.

L’estate dell’amore è finita da un pezzo.

 

La stretta frequentazione dei Creedence con Booker T. Jones a cavallo fra anni Sessanta e Settanta (con qualche sortita in studio che verrà documentata anni dopo su Fantasy session ’70, NdLYS) si rivela per John Fogerty fonte di ispirazione. È lui, dei quattro componenti del gruppo californiano, quello che ne subisce la fascinazione maggiore, tanto da voler convogliare il suono della sua band verso una formula che contempli un ruolo-chiave delle tastiere. Un cambiamento per cui è disposto a sacrificare pure il sangue del suo stesso sangue. In chiusura del 1970 esce Pendulum, figlio del nuovo gusto di John per l’Hammond e per i fiati della soul music.

È là che la band vuole portare il suo pubblico.

E per farlo mette all’ingresso qualche vecchia mollica del pane duro di Cosmo’s Factory: Pagan Baby è di fatto l’unico brano a richiamare nel suono i vecchi CCR, con la sua chitarra ruggente e il suo stomp martellante. Il resto, tutto il resto, è un’annacquata versione del populismo che era già emerso nei loro precedenti lavori ma che qui perde ogni mordente espressivo per diventare brodaglia AOR. Tastiere o fiati dilagano ovunque esondando anche, per fortuna senza inondarla, nella canzone destinata a futura memoria ovvero l’esangue Have You Ever Seen the Rain, finendo per assomigliare ad una versione proletaria dei Procol Harum nell’orrida (Wish I Could) Hideway, ai Dik Dik in It’s Just a Thought e sconfinando nell’onanismo del prog con Rude Awakening #2, al termine della quale Tom Fogerty apre la porta e la richiude, sbattendola, alle sue spalle. Lasciandoci dentro in compagnia dei fantasmi.

 

Per sopravvivere a sé stessi dopo la fuga dello zio Tom i superstiti dei Creedence stringono un patto: in estrema sintesi ognuno contribuisca a scrivere qualche pezzo e ognuno canti quel che ha scritto. È l’ennesimo, definitivo stravolgimento nell’assetto artistico e stilistico del gruppo californiano che pure torna, per l’ultimo atto della sua travolgente carriera, all’essenzialità degli esordi, pur traghettando la scialuppa dentro le acque più quiete di un folk-rock e di un country parente prossimo di quello dei Buffalo Springfield. Su Mardi Gras a far bella figura rispetto al resto sono ovviamente le tracce firmate (e cantate) da John Fogerty, in particolare il fumante rock and roll alla Steppenwolf di Sweet Hitch-Hiker e la dolente ballad Someday Never Comes. Ma sono sassi lanciati dentro l’acqua di una palude ormai bonificata, senza più fango e senza più mostri ad abitarne gli abissi. E alla fine, un attimo prima di venire inghiottiti, l’enigma delle “acque pulite” viene finalmente svelato, come prima quello del revival.   

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE DEL FUEGOS – The Longest Day (Slash)

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I Del Fuegos, da Boston, appartenevano a quella fetta di America che “si canta addosso”. Che era la stessa dei Blasters, la band di Dave Alvin che volle, fortemente volle, portare il gruppo dei fratelli Zanes alla corte dell’etichetta per la quale la sua band aveva già firmato da un paio d’anni e che, attraverso i dischi degli X, dei Dream Syndicate, dei Rank and File, dei Violent Femmes, dei Gun Club, dei Green on Red, dei Los Lobos e dei suoi Blasters stava riscrivendo appunto la grande storia americana, dei suoi feticci, delle sue paure, delle sue comunità, delle sue tradizioni raccontandola come in un quadro di Escher, percorrendola lungo delle vie di fuga che riportavano sempre al punto di partenza.

Come per i Blasters, i Del Fuegos erano un affare tra fratelli: cresciuti a Boston all’ombra del campanile di Jonathan Richman e della skyline della J. Geils Band che si staglia sull’orizzone Ovest ogni volta che il sole va a riposare, Dan e Warren Zanes ancora giovanissimi si immaginano prendere il loro posto sul palco più che confondersi anonimamente tra la folla.

E più che alle fronde, guardano alle radici. A quella grandissima distesa di concime biologico che fa crescere dorate le pannocchie e a cui prima della loro generazione avevano guardato Bruce Springsteen, Southside Johnny e Tom Petty (del quale Warren diventerà poi il biografo ufficiale). Che le mani siano un po’ più “nervose” rispetto a quelle dei loro idoli è ovviamente un difetto dovuto alla giovane età e ai postumi delle notti alcoliche passate a guardare in azione tutta quella pletora di band che sta incendiando le notti americane. Anche se poi tutto viene “aggiustato” in studio, tanto che The Longest Day suona miracolosamente perfetto anche a dispetto delle dichiarazioni di Warren secondo cui ai tempi riescono a malapena ad accordare gli strumenti. Insomma, un po’ di affettazione sembra filtrare da una scaletta che poggia i camperos su piccoli ghirigori rockabilly, sudati stomp, frantumi di specchi power-pop, artiglieria pub-rock oltre che su una lunga tradizione di blue-collar rock che sembrano aver assimilato benissimo. Nervous & Shakey, Longest Day, Missing You e la stucchevole ballata strizzacuore di Have You Forgotten fanno bella mostra di sé su un disco che fotografa l’America baciata dal sole e annerita dal carbone, con la fiamma della Statua della Libertà ancora accesa come un braciere olímpico a promettere sogni di gloria.

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro