THE BLACK CROWES – Happiness Bastards (Silver Arrow)

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Fra i tantissimi ritorni in scena del 2024 quello dei Black Crowes è passato un po’ in sordina. La band dei fratelli Robinson paga pegno per non aver mai adeguato (se non sporadicamente, come avviene qui su Flesh Wound) il proprio sound e per pascolare indenne fra i campi del classico guitar rock anni ‘70, quello che dal southern-rock americano arrivava fino alle terre inglesi di Faces, Humble Pie e Rolling Stones.

Happiness Bastards è il primo album di materiale autoctono dal lontanissimo Before the Frost…Until the Freeze e, rispetto a quello, ha un piglio molto più rock ‘n’ roll e sembra fugare le indecisioni sulla traiettoria da prendere delle ultime prove, virando nuovamente verso il fragoroso rock “d’antan” che ne caratterizzò i primi album, riattizzando la fiamma con pezzi vigorosissimi come Dirty Cold Sun, Bedside Manners, Rats and Clowns, concedendo un paio delle loro consuete carezze country-folk e consegnandoci una coppia di capolavori come Wanting and Waiting e soprattutto la stonesiana sporcizia di Bleed It Dry.

Il già sentito del già sentito. Ma i Crowes sanno il fatto loro.  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

ZZ TOP – ZZ Top’s First Album (London)

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Seppure un po’ “trattenuto” rispetto allo sfoggio barbarico di saranno capaci nei dischi successivi e che ne legittimeranno lo stile, il primo album dei texani ZZ Top è un ottimo lavoro di blues-rock. Siamo nel perimetro “triangolare” caro ai Cream ma con un boogie più marcato, cosa che sarà il loro stile peculiare ma che qui si avverte solo a tratti (Neighbor, Neighbor e Shaking Your Tree in particolare ma anche Goin’ Down to Mexico o Backdoor Love Affair).

Un suono asciutto come di legno seccato al sole, quello del terzetto di Houston, che sa di asfalto rovente, fornelli da campeggio e cibo in scatola. Un riadattamento plastico del vigoroso blues già formulato da Billy Gibbons con i Moving Sidewalks ora pronto a diventare la musica per i rednecks e i camionisti che dal Texas passano la frontiera messicana attraverso quella cerniera di ruggine e sangue che è Ciudad Juárez.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

GEORGIA SATELLITES – Georgia Satellites (Elektra)

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Recuperati già morti dal loro manager, i Georgia Satellites si videro realizzare a loro insaputa un mini-album che li costrinse a serrare nuovamente le fila e dare seguito al contratto con la Elektra che Kevin Jennings era riuscito a strappare dopo il discreto successo di Keep the Faith e alle potenzialità di Keep Your Hands to Yourself, riproposta subito in apertura dell’album omonimo pubblicato nel 1986 e che sfonda letteralmente le classifiche.

Siamo dentro un southern-rock che esonda da un lato nello sleaze e dall’altro nel blue-collar, con un bel lavoro di chitarre unte, alla bisogna pronte a passare alla modalità slide per ottenere il massimo dell’efficacia, come nella Can’t Stand the Pain dove si intravede in nuce l’altra band di Atlanta pronta a raccoglierne e perpetrarne l’eredità, ovvero i Black Crowes. Le due band, del resto, vengono da basi comuni che affondano nel suono inglese degli Stones e dei Faces, nel guitar-rock degli stati del Sud, nel boogie-blues di Ray Vaughan.

Malgrado una produzione e soprattutto un missaggio un po’ enfatici, il salto verso il mainstream della Elektra non è un salto deciso e la verve ancora ruspante del gruppo riesce a portare a casa un ottimo risultato di roots-rock stradaiolo e “sudista”. Poi la macchina lentamente si ingolferà ma fin qui i Georgia Satellites dimostrano di essere capaci di rinnovare uno stile già musealizzato da tempo e che valeva la pena abbellire un po’ per riportarlo ai vecchi fasti.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE BLACK CROWES – 1972 (Silver Arrow)

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Un tributo ad uno degli anni fondativi del sound dei Black Crowes. Un capriccio da studio mentre impazza il tour celebrativo per i trent’anni di Shake Your Money Maker, che nel frattempo, fra un’ondata pandemica e l’altra, sono diventati trentadue. Costretti dunque a ripiegare in studio ingannando l’attesa per la ripartenza del tour i Black Crowes hanno pensato di rendere omaggio ad alcuni loro eroi di sempre: T. Rex, Temptations, David Bowie, Little Feat e ovviamente, Rolling Stones e Rod Stewart. Insomma, i fratelli Robinson si calano le braghe e cagano nell’orto di casa. O comunque nei paraggi, risultando fra l’altro più efficaci nei momenti più inaspettatamente legate al glam-rock che a quelle più squisitamente roots, soul e southern-rock, pur senza nulla aggiungere a quanto era stato già stato detto, meglio, cinquant’anni fa. Senza neppure avvicinarsi, tanto per dire, alla sporcizia New Orleans che trasudava da Rocks Off degli Stones ma piegandola a un banalotto rock and roll coprofilo e lasciandoci col dubbio che i corvi si siano trasformati in avvoltoi e che nel cambio non ci abbiano guadagnato ne’ loro, ne’ noi.

                                                                                         Franco “Lys” Dimauro 

 

LYNYRD SKYNYRD – Second Helping (MCA)  

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Gli uomini e le donne del Sud sono persone orgogliose. Pronte a difendere della propria terra anche i difetti, soprattutto se vengono additati da qualcuno del profondo Nord. Succede così che ai Lynyrd Skynyrd proprio non va giù che un cowboy canadese di nome Neil Young additi l’Alabama come la terra dove il razzismo è ancora praticato con tolleranza e tutelato dalla legge. Perché l’Alabama è per i Lynyrd Skynyrd, che sono giovani, bianchi e nazionalisti, una “grande casa” per tutti. E così scrivono Sweet Home Alabama, la canzone che contiene il primo dissing della storia con un “Mi auguro Neil Young sappia che un uomo del sud non ha nessun bisogno di lui da queste parti” che non lascia margini di cattiva interpretazione. Pur difendendo in maniera un po’ ottusa uno Stato dove Rosa Parks viene arrestata per essersi rifiutata di lasciare il suo posto ad un bianco e in cui le autostrade su cui le moto dei fans della band possono sfrecciare sono state tracciate in modo che i ghetti neri non avessero alcun accesso a quelle lingue d’asfalto che avevano lo stesso colore della loro pelle, Sweet Home Alabama diventa paradossalmente una delle canzoni più rappresentative dell’America libera. Una tipica “canzone da viaggio” che si porta appresso “cieli immensi e immenso amore” per dirla con il manuale del Gran Mogol. Stessa sorte non tocca a The Ballad of Curtis Loew che invece canta un’ode a un bluesman dalla pelle d’ebano e che, pur sfruttando il banale stereotipo del nero intento a suonare il blues, è quanto di più vicino ad una sensibilità anti-razziale presente su Second Helping, il disco con cui i Lynyrd Skynyrd piantano la bandiera sudista sul rock americano.

Un album che è una trionfale parata di chitarre e riff immortali come quelli di Sweet Home Alabama, Workin’ for MCA, The Needle and the Spoon, Don’t Ask Me No Questions e della cover di Call Me the Breeze che chiude il lavoro. Canzoni che puzzano di sterco e di benzina, che sembrano rinnovare il prodigio di Mosè dividendo i campi con una striscia di bitume che porti verso una qualche liberazione, che apra una via di fuga, puntando verso l’orizzonte. Disco di cromature luccicanti e di ruggini, di motori e macchine per i campi, di hippie trasformati in Hell’s Angels, di sogni liberali e di prigioni conservatrici, Second Helping è il trionfo degli stati del sud e delle zolle di terra sulla California e le sue spiagge dorate.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

 

JIM JONES – Werewolf of London

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Un debutto dal vivo, come quello degli MC5 di venti anni prima.

Riff stretti stretti, come una costipazione metal-blues, proprio come quello lì.

E la parola rivoluzione che fa capolino, ancora una volta come su Kick Out the Jams. Il suono e l’immaginario estetico degli inglesi Hypnotics è in tutto e per tutto un déjà vu della Detroit a cavallo fra gli anni Sessanta e il decennio successivo, ovvero quelle stesse band cui in molti dopo la sbornia revival del garage-punk stanno adesso guardando con ammirazione e che dentro Live’r than God diventa adulazione/emulazione allo stato puro.

Cinque-canzoni-cinque infette come una siringa sporca di sangue.

Gli Hypnotics sembrano schiantarsi sulla pista del Wayne County Metropolitan Airport di Detroit senza neppure tentare un atterraggio di fortuna. Le lamiere raggiungono una temperatura da altoforno, i fumi esalano, saturi, fino a coprire il cielo.


È l’Inghilterra e sembra il Michigan.

L’ipnosi è riuscita.

La foto di copertina di Come Down Heavy sembra uno scarto dai provini di Ed Caraeff per la cover di Fun House. Gli Hypnotics, come gli Stooges venti anni prima, sono bellissimi e maledetti.

Infilarsi dentro questi solchi significa trovarsi nelle strade della Detroit folle di Stooges, MC5, Death, Frijid Pink, Amboy Dukes, Frost.

Blues sfigurato dai volumi altissimi e da distorsioni talmente violente da renderlo deforme, come avevano già fatto nel Michigan ma come avevano pure intuito Hendrix, i Blue Cheer e i New Yardbirds. Se ne accorgono prima Phil May e Dick Taylor dei Pretty Things che accompagnano la band su Bleeding Heart, poi tutti gli altri: Thee Hypnotics sono la cosa più pesante e vicina allo spirito fracassone del rock ‘n’ roll partorita da Albione in quegli anni. Una roba che mette soggezione ancora oggi.


Che disco strepitoso, Soul, Glitter & Sin. Così distante dal vortice stoogesiano dei primi Hypnotics e così cinematico che non a tutti piacque, quando venne pubblicato. Come se Jim Jones e compagni avessero tradito chissà quale promessa, senza che ne avessero mai fatta alcuna. Un disco che, senza rinnegare la forza d’urto del vecchio suono della band (la smerigliatrice di Shakedown sulla quale i lampi dei fiati sembrano evocare i vecchi filmati di Batman, The Big FixPoint Blank MysterySoul Accelerator una sorta di provino di tutto lo space-rock che verrà) si apre a soluzioni diverse offrendo un vastissimo campionario di emozioni che non sono soltanto quelle di un rock ‘n’ roll sguaiato e ultrarumoroso. Le strutture si diradano tirando fuori pezzi atmosferici e Cooderiani come Kissed by the Flames o Cold Blooded Love o pigri stomp noir come Black River Shuffle o Samedi’s Cookbook figli di una sbornia oppiacea che farà scuola (ispirando ad esempio gli Spiritualized più di quanto non abbiano fatto gli Spacemen 3 stessi) per concludersi con due alticce garage-songs come Don’t Let It Get You Down e Coast to Coast che sembrano incrociare i Primal Scream con le nuvole metalliche dei Flaming Lips, senza che nessuno se ne accorgesse, troppo attenti a cercare di capire perché gli Hypnotics avessero deciso di litigare con lo zio Iggy.

The Very Crystal Speed Machine. Ovvero di quando Chris Robinson tentò, riuscendoci, di fare degli Hypnotics la versione inglese dei Black Crowes.

Per arrivare al risultato Chris pensò di curare direttamente la produzione e di mettere a fianco della band due corvi in carne e piume. Cosicché brani come If the Good Lord Loves YouCaroline Inside Out e Goodbye sembrano proprio delle outtakes da Amorica., ovvero il più sbiadito dei dischi dei Crowes. Il vecchio suono della band, quello paradossalmente più americano e legato a doppia mandata con il rumore di Stooges, MC5 e Blue Cheer fatica ad uscire fuori in pezzi come Keep Rollin’ On e Heavy Liquid (titolo poi usato proprio per un cofanetto degli Stooges, NdLYS), quasi incapace di mostrare quella cattiveria primordiale che aveva influenzato suo malgrado legioni di futuri grungers e di musicisti stoner.

O forse soltanto troppo attenta a non scontentare chi aveva voluto tirarli fuori dall’oblio cui erano destinati per portarli, in buona fede, all’obitorio.

Jim Jones continua a guardare l’America dal suo alloggio in Camden Town.

Infilato quasi senza clamore fra le avventure degli Hypnotics e quelle della Jim Jones Revue, Emperor Deb dei Black Moses è uno dei più bei dischi su cui il cantante e chitarrista inglese abbia mai messo mano. Autentica polvere elettrica per la quale il buon Beppe Badino farebbe man bassa di tutti gli aggettivi della sua cartucciera per descriverne il potere scorticante. Black Moses sono un power-trio (con Jones sono della partita Graeme Flyint dei Penthouse e il batterista Chuck B.) capace di accendere folgorazioni cariche di flashbacks hendrixiani e stoogesiani. Psichedelia ultra pesante investita da impetuose onde fuzz e vicina a certe violenti escursioni care ai Blue Cheer, agli stessi Hypnotics e ai Mudhoney dei primi due dischi.


L’impatto bruciante del singolo di debutto Eye on You, una scossa elettrica che ti tramortisce i sensi con le sue scariche di distorsioni vintage che riprende certi sbrodolamenti stoogesiani già cari agli stessi Hypnotics imbastendoli su un potente lavorìo di riferimenti seventies, è in parte mitigato dalla presenza di ballate sporche e crespose come Slow MamaStrange Life e Yr Friend ma Emperor Deb mantiene in pieno le promesse di quel 7 pollici.

Suoni assolutamente vintage e un odore di valvole Mesaboogie devastante.
ew! Improved! Black Moses!

Avete presente tutto il rawk ‘n’ roll con cui la Scandinavia si è riempita la bocca e le tasche per un decennio? Bene, tutta quella roba lì viene spazzata via dai Black Moses di Royal Stink. Disco cazzutissimo che si muove sulle stesse coordinate di band come Hellacopters, Gluecifer e Flaming Sideburns e sui loro modelli ispiratori e che se fosse uscito per un’etichetta come la White Jazz farebbe gridare al miracolo stuoli di giornalisti che invece lo liquideranno con le poche righe con cui hanno liquidato dei Black Moses anche il disco di debutto da cui questo nuovo album si differenzia per un approccio leggermente più “heavy” senza mai sconfinare nel cattivo gusto.

Però sentite cosa fanno le chitarre su Thru You dove si innestano su un boogie alla Down on the Street saettando l’una contro l’altra.

Oppure ancora come cercano di domare i watt sul pezzo che intitola il disco e come strisciano sporche negli sleaze rock di Can’t Breath [Turkey Neck], Baj [Oh Yeah] e She Got da Moves.


O se avete voglia di sguazzare nel fango grugnendo come maiali, fate pure qualche vasca nel catrame di Better Believe mentre Jones indossa le vesti del Mosè Nero. Poi tornate qua e fatemi vedere come vi siete conciati.


Un disco che vi mette a soqquadro la casa, Royal Stink. Approfittando della vostra fede.



Jim Jones è un cane bastardo.

Uno che ha scopato con gli spiriti e respirato la condensa dentro i cellophane dei vinili di Stooges, Blue Cheer e Sonics. Con gli Hypnotics prima, con i Black Moses dopo. È ora la volta della sua band più rock ‘n’ roll.


Rock ‘n’ roll marcio per la precisione. Si chiamano Jim Jones Revue e debuttano con un disco omonimo.


Ricordate i Sonics che a Tacoma polverizzavano gli standard di Little Richard o gli Stones che seppellivano il blues dentro le quattro facciate di Exile on Main St.? Ecco, siamo lì. Il feedback degli Hypnotics è definitivamente evaporato e ora Jim gioca con un boogie feroce e massacrante spalleggiato dal picchiettio honky tonk di Elliot Mortimer, un londinese che sfascia il suo piano e ripara quello degli altri, sulla St. Margarets Road di Twickenham.

Fish 2 Fry è l’incontro definitivo tra gli Stray Cats e i Count Five: teddy boys e ragazzini psicotici che abusano di uno standard hillbilly.

Who‘s Got Mine è Northwest-punk suonato dalla gang di Arancia Meccanica dopo uno stupro di branco.

Cement Mixer è uno stomp coperto dalle bave di Jon Spencer e dell’Iguana.


Iggy Pop è Dio. Lemmy è Dio. Jim Jones è Dio.


Il concetto di volume non esiste. È come lo Yeti o la Befana. Mostri inventati per zittire i bambini e illuderli che il cattivo, il male, l’abominevole, sta altrove.

La Jim Jones Revue non controlla il gain, la Jim Jones Revue ficca i jack dentro i pertugi di un quattropiste, alza tutto e suona. Non ama i preliminari. Non porge fiori e Baci Perugina ma ti violenta le orecchie e ti fa sciogliere il cerume.

Ed è qui per salvarvi l’anima atrofizzata da troppi dischi che suonano come quei raduni proto-evangelici dove tutti si tengono per mano e fanno il saluto al sole dopo aver raccolto margheritine per i campi.

Dentro l’orinale di Here to Save Your Soul trovate le ghigliottine rock ‘n’ roll dei loro primi tre micidiali singoli e due pezzi nuovi di zecca: Burning Your House Down è uno stopposo blues che tira davvero giù il soffitto, lacerato da una chitarra cafona e dagli zampilli alcolici del piano di Elliot Mortimer, Elemental è uno scolo di scorie punk/blues nauseabonde colate giù dalle taniche di Controversial Negro. Un impatto ecologico devastante.

Jim Jones è il Jon Spencer inglese. I Revue, la sua Explosion.

Burning Your House Down invece è l’ennesima fellatio al membro ormai rattrappito del rock ‘n’ roll.

Ora che vi hanno fatto credere sia definitivamente morto e vi hanno obbligato a circondarvi di musiche buone per la vendemmia, adesso che vi hanno detto che il meglio da prendere era stato già preso, Jim Jones torna a sputarvi in faccia con un disco che mette assieme sessanta anni di musica morbosa e debosciata: Jerry Lee Lewis, MC5, Bunker Hill, Stooges, Sonics, Birthday Party, Pussy Galore, Stones, Esquerita, Sid Presley Experience.

Tempo di tirar giù le tapparelle e mandare a letto i bambini.


Altro che avanguardie canadesi e disco-wave.

La musica della Revue è un fiotto di sperma di Elvis e non conosce le buone maniere. I volumi rimangono eccessivi, l’aria satura di un’elettricità annichilente, il frastuono smisurato. Come se Jerry Lee Lewis suonasse l’intera scaletta di Raw Power al funerale di Lux Interior.


Per tre anni, su Rumore, la Jim Jones Revue fu esclusiva mia. Poi quando lo stato maggiore si presentò con la museruola, io lasciai il canile e diedero una ripulita a tutto. Non so dunque se qualcuno da quelle parti si sia voluto imbrattare il vestito e le scarpe di smalto con The Savage Heart ma è probabile che si, visto che nel frattempo i dischi della band di Jim Jones erano distribuiti da uno che su quel giornale ci scriveva, anche se sotto falso nome.

Ma delle due label, è la Punk Rock Blues quella col nome giusto, ancora una volta.  Titolo e foto di copertina, svelano il resto: Jim Jones è il cuore selvaggio d’Inghilterra, il Jerry Lee Lewis dell’era post-industriale. The Savage Heart non cede di un passo sulla sfrontatezza del quintetto, anche se c’è qualche passo più meditato ma non meno incerto (In and Out of Harm’s Way, Eagle Eye Ball, Midnight Oceans & the Savage Heart).


Le armi sono sempre ben spianate, anche se adesso ogni colpo è ben ponderato.

La Revue cammina come un branco di lupi rinsecchiti e incattiviti dal digiuno. Forse fareste meglio ad indossare il vestito buono pure voi e confondervi con i buoni cristiani, recitando le preghiere prima di ogni pasto e cacciando via gli infedeli.



Dopo gli Hypnotics, i Black Moses e la Revue, ecco Mr. Jim Jones di nuovo al debutto. Ancora una volta con un disco pronto a tirarvi la sedia da sotto il culo e sfasciarvela in testa. Uno che ha ancora fra i suoi dieci dischi preferiti quelli di Stooges, MC5, Jerry Lee Lewis, Sly Stone, Tom Waits, dei Cramps e le storiche registrazioni di Alan Lomax difficilmente può sbagliare. E infatti con §upernatural non sbaglia.

Il nuovo progetto ha, rispetto ai precedenti, una maggior influenza gotica e noir che caratterizza canzoni spettrali come Shallow Grave e Everybody but Me e che si riversa copiosa dalle copertine così come dai tre video fin qui realizzati dalla band ma i nodi con le precedenze esperienze musicali di Jim Jones non sono stati affatto sciolti o recisi. Gli Stooges e il boogie-rock del Killer sono la base acida dentro cui vengono disciolte canzonacce sbronze come DreamBase Is Loaded Something’s Gonna Get Its Hands on You mentre canzoni come No FoolAldecide o Till It’s All Gone perseverano a sfangare nel gusto peccaminoso del blues assordante e ferroso dei Grinderman. Super Natural conferma la caratura di Jim Jones, la sua grande capacità di rinnovarsi senza mai tradire la fede nel rock ‘n’ roll più abbietto ed esagerato per pose e volumi. Daccene ancora, Lord Jim.



Da vecchio fanatico degli Stones ho cominciato l’ascolto a rovescio, curioso di sentire al lavoro la Gibson Hummingbird di Keith Richards manovrata da Alan Clayton dei Dirty Strangers sulla conclusiva Shazam.

Quello di Alan non è l’unico “guest” del secondo album di Jones con i suoi Righteous Mind ma è ovviamente quello che incuriosisce di più chi, come me, ha amato alla follia un disco come Exile on Main St.

E il pezzo una roba assolutamente fantastica piena di decadente e sozzo rock ‘n’ roll anni Settanta. Del tipo che Iggy Pop praticava con James Williamson quando tutti lo davano per spacciato, per capirci. Del tipo, ancora, che se Jones avesse fatto fuori un disco di questo tenore saremmo davanti al capolavoro.


(S)fortunatamente non lo fa e CollectiV sfuma spesso in una sorta di gotico tarantiniano a metà fra Chris Isaak e Ry Cooder (Going There Anyway, Dark Secrets, Meth Church), nelle consuete canzoni storpie da bucaniere a lui tanto care come Satan’s Got His Heart Set on You e Out Align o si accende addirittura di flashback delle sue vite passate (vedere alla voce Hypnotics e Black Moses) con pezzi come Attack of the Killer Brainz, il gospel bruciato dal fuzz di I Found a Love e la stramba O Genie con cui il buon Jim Jones avanza ipotesi evolutive sul genere, senza tuttavia trovarne una degna di poter fare ipoteche sul futuro.

Dal funambolico performer inglese che finora non ha quasi mai sbagliato un colpo e dalle fiamme sprigionate dal singolo Sex Robot mi sarei aspettato onestamente molto di più e CollectiV mi suona un po’ come una bella occasione sprecata. Come quando inviti qualcuno “per un caffè”. E bevi solo il caffè.  

 

Memphis, Nashville, Chattanooga, Jonesboro, Atlanta, Jackson, Folsom, New Orleans. Il Sud degli Stati Uniti, la grande provincia della musica americana, quella dove nasce quel sound bastardo che puzza di fogna è la nuova “location” dell’ennesimo progetto di Jim Jones, quello degli All Stars (ovvero, essenzialmente, la Revue con una possente sezione fiati e una voce “nera” nascosta sotto un caschetto biondo).  

Ain’t No Peril, questo il titolo, è come una mutanda sporca di Andre Williams, con la sua strisciata di merda funky. Lunga trentanove minuti.

Su quella lingua di deiezioni ci passano ballate da struscio e voodoo rock maledettamente groovy (I Want You, Troglodyte, Gimme the Grease), gospel da marciapiede, putridi R ‘n B che sono la testa dei Detroit Cobras sul corpo dei Rolling Stones (Devil’s Kiss, che è carne sulla carcassa di Got Love If You Want It), honky-tonk da trinciato forte, strumentali da vertigine exploitation facendo del debutto degli All Stars una delle migliori pietre d’inciampo su cui possiate sbattere l’alluce quest’anno.     

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

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THE BLACK CROWES – Milk Crow Blues

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Sudista e sudato. 

Shake Your Money Maker è un’Operazione Nostalgia assolutamente ben fatta.

Roba da lacrimoni blues e fiotti di sperma rock ‘n’ roll.

Jeans sdruciti e capelli sozzi. Come nella tradizione locale di Allman Brothers e Lynyrd Skynyrd e quella importata dal Vecchio Continente di Rolling Stones, Faces, Free. Gentaglia che si divertiva a misurare la lunghezza del pene e bere Southern Comfort, con i letti pieni di sorca e l’alito cattivo e un canzoniere in cui le macchine corrono sempre troppo veloci e le donne hanno il cuore a forma di portagioielli, come nella vita vera.

Come dentro le prime canzoni dei Black Crowes.

Che sono giovani e adulte al tempo stesso.

Non hanno la stessa urgenza teppista dei Guns N’ Roses.

Non hanno fretta di morire. 

Sono cariche di soul.

Quella roba che ti fa ridere di dolore.

Come l’amore non corrisposto. 

Come l’amico del cuore che ti vende per trenta danari.

Quanto costava una birra ai tempi di Cristo?

Quanto costava ai tempi dei Black Crowes?

Quanto costa, adesso, una birra?

Più di un amico.

Meno di un disco dei Crowes.

 

Il southern rock che sconfina nel soul.

Un fiume straordinario di chitarre, spruzzi di pianoforte (opera di Eddie Harsch, più tardi bassista e organista nei Detroit Cobras, NdLYS), una voce calda come quella del miglior Rod Stewart contrappuntata da un coro di voci femminili. Proprio mentre fuori si registra l’ultima rivoluzione di costume giovanile del millennio, The Southern Harmony and Musical Companion porta a compimento le ottime intuizioni del debutto scendendo a patti con la tradizione americana sin dalla scelta del titolo rubato a un vecchio libro del secolo precedente che metteva insieme 335 brani della storia musicale sacra del Sud. Il dialogo empatico tra le chitarre di Rich Robinson e del neo acquisto Marc Ford è spettacolare, reso ancora più caldo dall’uso delle classiche accordature aperte memori della lezione stonesiana degli anni Settanta e così fluido da permettersi di indugiare senza nessuna concessione alla noia anche per oltre sei minuti, come succede sulla dolcissima Thorn in My Pride, nella rancorosa Bad Luck Blue Eyes, Goodbye e nei ruggiti slide di My Morning SongThe Southern Harmony and Musical Companion è un disco che, pur rimestando nella cornucopia di suoni “old-oriented”, riesce a sorprendere per una capacità di scrittura straordinariamente sopra la media, sorprendentemente coerente eppure sempre in grado di trovare una soluzione di classe, un gancio melodico efficace, un riff conciliante, una lordura inaspettata, una sottigliezza tecnica, una coloritura esclusiva capace di fare di ogni singola canzone un piccolo capolavoro nel capolavoro. The Southern Harmony alza il fantoccio del guitar rock degli anni Settanta e gli alita in bocca il soffio della vita, anche se tanti continueranno a guardarlo come fosse uno spaventapasseri.

Con sopra dei corvi neri.

La copertina mette subito voglia, come dire… di “scoprirlo”, il terzo album in studio dei Black Crowes.

Ma Amorica. è disco destinato a scontentare i fans.

A dimostrazione che se i Black Crowes sono dei conservatori, il loro pubblico lo è ancora di più. Nonostante la rapidità con cui viene registrato, Amorica. sfoggia infatti il tentativo di emanciparsi dalla formula dei due dischi precedenti cercando formule più elaborate e concettuali messe in mostra sin dall’iniziale Gone, dove il riff di chitarra (elemento portante dello stile della band) viene di fatto sbriciolato e ridotto ad una presenza virtuale. E se A Conspiracy riporta apparentemente il bilico sul classico assetto del gruppo grazie alla voce sempre carica di umori soul di Rich Robinson (ma anche qui si evidenzia un lavoro di chitarre che tende a sfuggire, senza rinnegarli, dai modelli stilistici abituali), il taglio cubano (spezzato dal riff granitico dell’inciso) di High Head Blues torna a ravvivare il gusto per nuove contaminazioni (Santana?) che verranno sviluppate anni dopo nei dischi solisti del leader. Al quarto pezzo i Black Crowes infilano la solita ballatona piena di umori Skynyrd+Cocker+Burrito+Faces+Stones cui ci hanno ri-educati sin da Shake Your Money Maker e che non cesseranno mai di esibire lungo la loro lunghissima carriera. Sei minuti di dolcezza e livore chitarristico che inumidiscono di umori vaginali il pelo pubico mostrato in copertina. Il lato più rurale del suono dei Crowes trabocca invece da pezzi come Nonfiction e Downtown Money Waster, briciole cadute dalla tavola di Beggars Banquet, polveri blues scivolate nella fogna assieme alle bustine di coca buttate nei gabinetti di Main Street.

Più ordinariamente “easy” sono invece Ballad in UrgencyWiser Time e Descending, dove tornano ad emergere i clichè del suono Crowes nella loro veste più ammiccante e puttana. Quella che rassicura tutti, detrattori compresi.

 

Nel 1996, all’apice produttivo del concettualismo post-rock, i Black Crowes licenziano il loro quarto album. In quell’apoteosi di suoni che prendono forma dalla decomposizione del rock, il suono della band di Atlanta appare ancora più vetusto che in passato, inadatto ad affrontare la nuova sfida che si para loro dinanzi, ovvero quella di far breccia in un pubblico che, fatte salve le schiere di affezionati, pare lasciarsi affascinare da musiche più complesse e cerebrali.

Seppure Three Snakes and One Charm si allontani parzialmente dal clichè dei primi album mediando la prepotenza del riff in favore di un suono più “paludoso”, i Black Crowes diventano del tutto marginali al mercato musicale finendo per somigliare ai vecchi dinosauri che erano stati esiliati dal punk in una riserva dove sarebbero dovuti morire a poco a poco, dimenticati dal resto del mondo.

Con le scarpe sporche di fango e concime, i fratelli Robinson si fanno testimoni e custodi di un rock inzuppato nei badili della musica nera, con l’ostinazione fiera dei rednecks ma con uno spirito stavolta più bastardo che si muove errabondo nella mitologia spicciola della musica del Sud, stavolta con un senso di bivacco maggiore, in quella circolarità voodoo evocata dal titolo e dal disegno che lo rappresenta.   

Canzoni per lo più inafferrabili, malgrado i contorni ben definiti, come ancora una volta suggerisce la copertina.

Un cerchio dove vengono chiusi Otis Redding (Halfway to Everywhere e Let Me Share the Ride illuminate dai fiati della Dirty Dozen Brass Band), le libagioni stonesiane di Beggars Banquet (How Much for Your Wings?Good FridayEvil Eye, la cover di Mellow Down Easy destinata a fare da retro al singolo One Mirror Too Many) e tanto, tanto rock confederato.

Bentornati fratelli Allman.

Ops…Robinson.

Il disco che inaugura il nuovo contratto con la Columbia parte con il piede sull’acceleratore. Go Faster tiene infatti fede al suo titolo, nel tentativo di recuperare il tempo perduto fra il disco precedente e questo nuovo.

Attorno ai fratelli Robinson sono cambiate nel frattempo diverse cose.

Il disco consegnato alla American Recordings non è piaciuto e la band ha fatto le valigie (la American ci ripenserà tempo dopo, con i corvi ormai volati lontano, pubblicandolo come Lost Crowes assieme agli scarti di Amorica., NdLYS). Marc Ford è stato allontanato dal campo dove i corvi vanno a beccare e Johnny Colt ha lasciato il nido per diventare uno yogi. Non l’orso, quello che saluta il sole al mattino e riverisce la luna di notte. Un lavoro di “depurazione” che i Black Crowes celebrano sulla copertina del nuovo disco vestendosi di un angelico bianco.  

Rich Robinson, ribattezzatosi The Prince per l’occasione, non fa rimpiangere il Ford che ha abbandonato il garage. La sua chitarra, che la magia della produzione alterna e sovrappone nel ruolo di ritmica e di solista, non ha un solo attimo di cedimento e By Your Side, dopo le incertezze del disco precedente, rimette il suono dei Black Crowes nella carreggiata del miglior rock sudista contemporaneo, con gli occhi sempre fissi a guardare quelli di Keith Richards, Mick Jagger e Ron Wood.

I detrattori che li vogliono alfieri di un rock demodè avranno di che rodersi il fegato e dovranno rivolgersi altrove, aspettando magari che nasca il Kid A di cui pare sia iniziata la gestazione in un’altra parte del globo.

Qui dentro, solo puzza di vecchio.

La naftalina l’ha mangiata tutta Eta Beta.  

 

Live at The Greek, pubblicato nel febbraio del 2000 e cointestato nientepocodimenoche con Jimmy Page, è il frutto discografico, disponibile preventivamente e parzialmente anche in Rete, di una delle tourneè più inseguite e coinvolgenti del 1999 e che ha visto, spalla a spalla, il passato più idolatrato e il presente più sanguigno di quell’etica/estetica di cui il nuovo intellettualismo regnante ci vorrebbe derubare. È il rock-blues scelto come via di fede. E non è un caso che le immagini sacre che si celebrano nelle stazioni di questa Via Crucis siano più che sovente quelle degli Zeppelin. Ma non è qui la plateale anima pindarica degli Zep a prendere il volo (niente “scale per il paradiso” ne’ celebrazioni tronfie da Songs Remains the Same qui dentro, NdLYS) quanto piuttosto il suo mai sopito feeling blues a essere sviscerato con forza invidiabile e confrontato con le anime nere dei vari BB King o Elmore James, rimesso a nudo dalle sei corde di Jimmy Page (sempre “offensive”, le stesse che ci hanno rigato il cuore e che hanno patteggiato col Diavolo per carpire il segreto del blues) e dalla carica dei Black Crowes, la più credibile e cazzuta rock ‘n’ roll band in giro da dieci anni a questa parte, guidata da una voce che, unica al mondo, non teme di confrontarsi con l’ugola feroce di Robert Plant senza finire tra le macchiette dei pomeriggi di MTV.

Uno di quei dischi che il presente ci vorrebbe fare dimenticare tra mille sofismi post rock e il battage sensazional-popolare della club culture: una celebrazione del rock ‘n’ roll.

Nulla di più, ma neanche nulla di meno.

L’incontro con Jimmy Page rinvigorisce la criniera dei Black Crowes.

Il ritorno in studio dopo il lungo tour con il chitarrista inglese è foriero di belle vibrazioni e Lions saluta dei corvi in grandissima forma, nuovamente carichi di stimoli di cui le ultime prove in sala di registrazione sembravano orfane.

Se da un lato la produzione di Don Was conferisce una dinamica senza precedenti nella storia della band di Atlanta, dall’altra le chitarre di Rich Robinson ruggiscono come non mai mentre la voce di Chris si impenna in interpretazioni credibili di quel soul che ha già bruciato le ugole di Peter Green e Joe Cocker.

Archetipo della nuova formula è Come On, messa in scaletta dopo la mirabolante doppietta iniziale di Midnight From the Inside Out e Lickin’ piene di chitarre imbizzarrite che sembra difficile da tenere a bada. Oppure, sulla seconda parte dell’album, la Young Man Old Man che traccia un ideale ponte tra gli Stones di Beggars Banquet, il Santana di Abraxas e lo Stevie Wonder di Innervisions.

Cosmic Friend è invece uno dei pezzi più bizzarri e capricciosi dell’intero catalogo Black Crowes con la sua intro quasi freakbeat, il botta e risposta messo tra l’ugola di Chris e la chitarra del fratello Rich e il pianto di neonato che la conclude.

La sezione ballate, da sempre una delle più rigogliose dell’albero dove i corvi vanno a poggiare le zampe, si arricchisce delle fronde morbide di Miracle To MeLay It All On MeLosing My Mind mentre la Soul Singing suonata da Rich su una delle fantastiche creature metalliche di James Trussart, regnerà sovrana e imperitura su tutto il catalogo Black Crowes degli anni Zero.

Benvenuti nella giungla, uccellacci della malora.

 

Nel marzo del 2008, dopo un silenzio discografico durato sette anni, i Black Crowes tendono un tranello alla stampa musicale.

E la stampa ci cade, rivelando suo malgrado ed inconsapevolmente quella che è sovente una loro abitudine.

Sul numero di marzo di Maxim infatti viene pubblicata una recensione del nuovo disco della band di Atlanta, a firma di David Peisner. Il quale assegna due stelle e mezze su cinque, giudicandolo “mediocre”.

Il giudizio non è discutibile, come sempre. In quanto soggettivo.

Peccato che stavolta si tratti di un pregiudizio, però.

Non è una cosa eccezionale in sé, perché i giornalisti non hanno tempo per ascoltare tutto e capita che il pezzo debba andare in stampa lo stesso. L’ho imparato quando scrivevo sulla carta stampata, prima di fuggirne inorridito.

Solo che stavolta, tutto è stato architettato a dovere dai fratelli Robinson. I quali, avendo adesso il pieno controllo sul proprio materiale artistico, hanno deciso che nessuna copia promozionale verrà distribuita alla stampa e che, ad eccezione del singolo che lo anticipa, l’album sarà blindatissimo fin quando non verrà distribuito nei negozi, allietando la festa delle donne di quel 2008.

Ne viene fuori uno sputtanamento plateale che costringerà Maxim a porgere le sue scuse.

Ma com’è, ad ascolto avvenuto, questo nuovo disco dei Black Crowes? Molto diverso da quel Lions che ruggiva sette anni prima. Warpaint è un album volutamente rurale, fatto di suoni perlopiù acustici ed introversi che ben si amalgamano con l’eco ambientalista delle produzioni soliste dei due fratelli.

Ecco dunque dipanarsi ballate e canzoni dal passo lento come Oh JosephineLocust StreetThere’s Gold in Them HillsMovin’ On Down the RoadEvergreenWee Who See the DeepGod’s Got It e il canto pellirossa di Whoa Mule che costituiscono il cuore di un disco di una band autentica che il mercato ha relegato negli scaffali dove solo pochissimi avventori vanno a frugare.

E pochissimi giornalisti vanno a sentire.

 

Per l’atto conclusivo della propria storia i Black Crowes radunano attraverso il loro sito una folla di pochi intimi ai Levon Helm’s Studios di New York, accendono microfoni e videocamere e registrano tutto.

Se non è buona la prima, non ci sarà una seconda.

Ma non serve ci sia.

Le venti canzoni che annunciano l’imminente glaciazione dei Black Crowes finiscono tutte su disco, a fare di Before the Frost…Until the Freeze l’ultimo orgoglioso viaggio dentro un suono dinamico come noi mai, a volte quasi  funkeggiante, ormai in grado di parlare con grandissima maestria e stile ogni dialetto della musica tradizionale americana. Forse, se un difetto lo si deve trovare in questo commiato dei corvacci neri, è proprio questo eccesso di padronanza dei propri mezzi espressivi (ascoltare la perfezione “formale” di pezzi come I Ain’t Hiding o What Is Home? su cui altri, ben più blasonati, avrebbero speso decine e decine di ore di registrazione) che va a discapito dell’anima sanguigna che ha sempre contraddistinto la band.

L’apparente ultimo volo dei Black Crowes ha l’eleganza rapace e la possente maestosità di un volo d’aquile.

Come nella fiaba di Andersen, gli uccellacci abbandonano il nido lasciando un tappeto di piume nere.

1972 è un tributo ad uno degli anni fondativi del sound dei Black Crowes. Un capriccio da studio mentre impazza il tour celebrativo per i trent’anni di Shake Your Money Maker, che nel frattempo, fra un’ondata pandemica e l’altra, sono diventati trentadue. Costretti dunque a ripiegare in studio ingannando l’attesa per la ripartenza del tour i Black Crowes hanno pensato di rendere omaggio ad alcuni loro eroi di sempre: T. Rex, Temptations, David Bowie, Little Feat e ovviamente, Rolling Stones e Rod Stewart. Insomma, i fratelli Robinson si calano le braghe e cagano nell’orto di casa. O comunque nei paraggi, risultando fra l’altro più efficaci nei momenti più inaspettatamente legate al glam-rock che a quelle più squisitamente roots, soul e southern-rock, pur senza nulla aggiungere a quanto era stato già stato detto, meglio, cinquant’anni fa. Senza neppure avvicinarsi, tanto per dire, alla sporcizia New Orleans che trasudava da Rocks Off degli Stones ma piegandola a un banalotto rock and roll coprofilo e lasciandoci col dubbio che i corvi si siano trasformati in avvoltoi e che nel cambio non ci abbiano guadagnato ne’ loro, ne’ noi.

Fra i tantissimi ritorni in scena del 2024 quello dei Black Crowes è passato un po’ in sordina. La band dei fratelli Robinson paga pegno per non aver mai adeguato il proprio sound e per pascolare indenne fra i campi del classico guitar rock anni ‘70, quello che dal southern-rock americano arrivava fino alle terre inglesi di Faces, Humble Pie e Rolling Stones.

Happiness Bastards è il primo album di materiale autoctono dal lontanissimo Before the Frost…Until the Freeze e, rispetto a quello, ha un piglio molto più rock ‘n’ roll e sembra fugare le indecisioni sulla traiettoria da prendere delle ultime prove, virando nuovamente verso il fragoroso rock “d’antan” che ne caratterizzò i primi album, riattizzando la fiamma con pezzi vigorosissimi come Dirty Cold Sun, Bedside Manners, Rats and Clowns, concedendo un paio delle loro consuete carezze country-folk e consegnandoci una coppia di capolavori come Wanting and Waiting e soprattutto la stonesiana sporcizia di Bleed It Dry.

Il già sentito del già sentito. Ma i Crowes sanno il fatto loro.  

                                                                                                Franco “Lys” Dimauro                                                                                    

PRIMAL SCREAM – Give Out but Don’t Give Up: The Original Memphis Recordings (Sony Music)  

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L’album con la bandiera confederata degli stati del Sud. Come quella sventolata dai Lynyrd Skynyrd durante gli anni Settanta.

Che i Primal Scream stessero al Sud degli Stati Uniti come l’orso polare con il deserto californiano importava poco: Give Out but Don’t Give Up non voleva barare, dimostrando subito un segno di appartenenza, anche se d’adozione. Il ritorno in pista dei Primal Scream dopo l’elaborata fusione tra mondi di Screamadelica fu di una volgarità inaudita: chitarroni rollingstoniani e fiati da gruppazzo funk, come gli Aerosmith di Permanent Vacation. Un’abiura dalle piste da ballo che il precedente disco aveva dominato e un tuffo nel mare magnum del rock ‘n’ roll untuoso da autostrada americana che si apriva già impettito, con Jailbird e la successiva Rocks, destinate a raccogliere il timone della Rag Doll dei gemellini tossici che era stato l’asso pigliatutto del rock da classifica di qualche anno prima. Proprio come quella, le ammiraglie di Give Out but Don’t Give Up transitano sovente in radio trascinando con loro tutto il carico di luoghi comuni del rock americano di cui il disco è saturo e certe sue assonanze con il blue-eyed soul degli Aztec Camera di Love che il pubblico distratto non sente ma che li raggiunge in maniera subliminale in tante canzoni, Big Jet Plane su tutte.  

Questa nuova versione, precedente a quella poi diventata la copia madre del disco che conosciamo, dovrebbe mostrare una faccia inedita, più “acqua e sapone” di quel disco prima che l’intervento di George Drakoulias lo dirottasse su territori limitrofi a quelli calpestati dai Black Crowes.

Anche “struccato” Give Out but Don’t Give Up non si discosta dal risultato a tutti conosciuto, per cui chi si avvicinerà al disco sperando di trovarsi dentro una palude di rock ‘n’ roll sudicio e cattivo, con sporcizia blues disseminata ai bordi delle strade come nell’Exile Street degli Stones, sappia che se ne tornerà a casa deluso e con qualche soldo in meno: le canzoni avevano infatti una loro precisa identità e quella di Bobby era un’infatuazione reale per i suoni della tradizione americana del resto già ravvisabile nei dischi precedenti. Solo che adesso Bobby vuole realizzare un disco “classico”.

Come scritto in apertura, in fin dei conti Gillespie non stava bluffando.

La nuova edizione del disco dunque non regala nessun valore aggiunto a quel lavoro, soddisfacendo più i bisogni da voyeur che una reale esigenza di ripulire l’insieme dal superfluo che, anche scartavetrando la superficie, resta inappagata.  Un esito che non ne giustifica i costi di realizzazione, pur risparmiando sulle foto per la copertina.

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

MOTHER SUPERIOR – Three Headed Dog (Rosa)    

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Da noi non hanno un grosso seguito ma negli States sono stati in tanti a chiedere i loro servigi. Da Daniel Lanois (che collabora e produce anche questo nuovo disco) a Henry Rollins passando per Wayne Kramer, Emmylou Harris, Iggy Pop, QotSA e Alice Cooper. Un pedigree di tutto rispetto per una band dalla discografia dal valore altalenante, regola a cui non sfugge neppure questo Three Headed Dog. A volte ci si para davanti una sorta di clonazione dei fratelli Robinson (soprattutto quando le corde si allentano come su Today Is That Day, Let It Go) e in molti momenti (Stealing My Shadow, How Did You Know o Standing Still per es.) ci si ferma ad un passo da certi cliché AOR che prima erano solo latenti. Ma il gioco è condotto con una paraculaggine non ancora indigesta e tutto sommato ancora godibile. Purché qualcuno vada a dir loro che non abbiamo bisogno dei nuovi Aerosmith.

                                  

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

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THE BLACK CROWES – The Southern Harmony and Musical Companion (Def American)

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Il southern rock che sconfina nel soul.

Un fiume straordinario di chitarre, spruzzi di pianoforte (opera di Eddie Harsch, più tardi bassista e organista nei Detroit Cobras, NdLYS), una voce calda come quella del miglior Rod Stewart contrappuntata da un coro di voci femminili. Proprio mentre fuori si registra l’ultima rivoluzione di costume giovanile del millennio, The Southern Harmony porta a compimento le ottime intuizioni del debutto scendendo a patti con la tradizione americana sin dalla scelta del titolo rubato a un vecchio libro del secolo precedente che metteva insieme 335 brani della storia musicale sacra del Sud. Il dialogo empatico tra le chitarre di Rich Robinson e del neo acquisto Marc Ford è spettacolare, reso ancora più caldo dall’uso delle classiche accordature aperte memori della lezione stonesiana degli anni Settanta e così fluido da permettersi di indugiare senza nessuna concessione alla noia anche per oltre sei minuti, come succede sulla dolcissima Thorn in My Pride, nella rancorosa Bad Luck Blue Eyes, Goodbye e nei ruggiti slide di My Morning Song. The Southern Harmony and Musical Companion è un disco che, pur rimestando nella cornucopia di suoni “old-oriented”, riesce a sorprendere per una capacità di scrittura straordinariamente sopra la media, sorprendentemente coerente eppure sempre in grado di trovare una soluzione di classe, un gancio melodico efficace, un riff conciliante, una lordura inaspettata, una sottigliezza tecnica, una coloritura esclusiva capace di fare di ogni singola canzone un piccolo capolavoro nel capolavoro. The Southern Harmony alza il fantoccio del guitar rock degli anni Settanta e gli alita in bocca il soffio della vita, anche se tanti continueranno a guardarlo come fosse uno spaventapasseri.

Con sopra dei corvi neri.

                                                                                        Franco “Lys” Dimauro

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