THE BISHOPS – Live! (Chiswick) 

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Nel marzo del 1978 i Count Bishops diventano, semplicemente, Bishops. Lo annunciano pubblicamente l’ultimo giorno del mese, su un singolo con una cover di I Take What I Want sul lato A e un originale intitolato No Lies sull’altro.

L’ultima esibizione col vecchio nome, al Blast Furnace di Londra, era stata però registrata per un disco collettivo che la scuderia Chiswick ha in programma di pubblicare. Invece, non se ne fa nulla. L’etichetta decide però di pubblicare per intero il set dei (Count) Bishops, pubblicandolo col semplice titolo di Live! il 28 aprile del ’78, in due formati differenti per due pollici uno dall’altro.

Dentro resta imprigionata tutta l’energia pub-rock della band e, per l’ultima volta, la chitarra di Zenon De Fleur che morirà per un incidente automobilistico il 18 marzo dell’anno seguente su un tavolo operatorio portando per sempre con sé una parte dell’anima dei Bishops. Per questo Live! assume un valore ancora più grande, nel già grande merito della formazione inglese che per prima pisciò sui dischi dei Genesis. 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

 

AA. VV. – Live Stiffs Live (Stiff)  

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Nell’estate del 1977 Dave Robinson e Andrew Jakeman, titolari del marchio Stiff, pensano di presentare al pubblico tutti i neo-acquisti della loro scuderia in un tour promozionale chiamato 5 Live Stiffs e che porterà in giro per l’Inghilterra per 24 date Ian Dury, Elvis Costello, Nick Lowe, Wreckless Eric e Larry Wallis con tanto di musicisti al seguito, non necessariamente quelli delle band che li accompagnano su disco. Ma del resto l’idea che Dave e Jake vogliono trasmettere della loro etichetta è quella di un’unica, grande famiglia, e quella è.

Lo show prevede due ore e mezzo di concerto, con un set di mezz’ora per ogni act, con conclusione affidata puntualmente a quello che è l’inno del tour: una versione corale di Sex and Drugs and Rock ‘n’ Roll di Ian Dury.

Un esperimento promozionale costato all’epoca qualcosa come 11000 Sterline, recuperati solo in parte.

Il souvenir discografico (ne esiste anche una versione video, già annunciata all’epoca sulla copertina ma in realtà resa pubblica solo nel 2014, NdLYS) dell’avvenimento è risicatissimo e purtroppo, malgrado gli scaffali siano affollati di ristampe deluxe, gran turismo e station wagon, nessuno si è preso la briga di allungare la striminzita scaletta di trentacinque minuti. Cosicché dopo quarant’anni Live Stiffs Live rimane quel che fu allora: un piccolo documento di un’attitudine, quello della Stiff, dove l’identificazione fra artista, pubblico ed etichetta era un requisito essenziale per l’affermazione della Stiff come etichetta più cool dell’Inghilterra, anche sotto il fuoco “nemico” del punk (il cui primo B-52 di era alzato proprio sotto l’egida della label londinese).

La musica è quella cui pensate ogni volta che il logo della Stiff passa sotto i vostri musi. Se non vi piace…it ain’t worth a fuck.   

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

JOE JACKSON – I’m the Man (A&M)

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Con tanto di baffetto posticcio, Joe Jackson si mostra sulla copertina del suo secondo album in tenuta da spiv, i faccendieri ben vestiti che eccellevano nell’arte del contrabbando e del mercato nero nella vecchia Inghilterra.

La roba messa in mostra è, più o meno, quella raccolta sul disco di debutto appena dieci mesi prima. Come per Look Sharp! sono infatti Gary Sanford con le sue chitarre affilate e il basso di Graham Maby a dare carattere alle canzoni, tanto che già dal terzo estratto Kinda Kute verrà deciso di adottare il nome collettivo di Joe Jackson Band fino a quando il quarto uomo David Houghton non sceglierà di abbandonare la carriera di batterista sciogliendo di fatto il quartetto.

La “forza” del collettivo si esprime al meglio in pezzi come Friday (musicalmente la perla del disco, NdLYS), Get That Girl, I’m the Man, Don’t Wanna Be Like That, On Your Radio e nel reggae sbarazzino alla XTC di Geraldine and John anche se complessivamente, nonostante il miglior affiatamento della band, il risultato è appena un pelo inferiore a quello del debutto seppur ancora a livelli altissimi. Joe Jackson dimostra di aver appreso la lezione del punk e la volontà di disfarsi del suo lessico per elaborare un dizionario trasversale che si farà ancora più complesso già dal passo successivo, fino a volersi trasformare nell’Icaro della new-wave e a bruciarsi le ali toccando il braciere degli Dei più e più volte lungo la carriera, fino ad uscirne con la carne bruciata.      

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

NICK LOWE – Labour of Lust (Columbia)

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Il pezzo è in realtà poco più che una variazione di Say a Little Prayer, abilmente truccata da confetto. Ed è il più grande successo di Nick Lowe, scritto quando era ancora uno dei ragazzi dei Brinsley Schwartz e piazzato in apertura del suo secondo album solista col titolo di Cruel to Be Kind mettendo in vetrina il lato più conciliante della scrittura di Lowe. La perla del disco è però la canzone successiva, il chiaroscuro sottilmente perverso di Cracking Up, ombroso e suggestivo squarcio metropolitano che apre la strada al complesso architettonico di Big Kick, Plain Scrap in cui la melodia viene sacrificata in funzione di un grande gioco percussivo mutilato a sua volta da un finale tronco che viene inondato da un nuovo straripamento di melodie merseybeat come quelle di American Squirm che tuttavia raggiungono il loro apice su Without Love, immerse come Idrolitina dentro un bicchiere di acque sorgive che ricordano i Turtles e i Byrds rendendo Labour of Lust una delle bibite più rinfrescanti di tutto il 1979.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

JOE JACKSON – Look Sharp! (A&M)

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Dopo la stagione delle chitarre affilate, arrivarono le scarpe affilate di Joe Jackson. Sono le Denson ancora immacolate che il giovane Joe ha acquistato il giorno prima, proprio per le session fotografiche assieme a Brian Griffin per la copertina del suo disco di debutto. Del punk non è del tutto immune, Look Sharp!, tanto che un pezzo come Throw It Away potrebbe essere, anzi lo è, la perfetta trasposizione del groove stoogesiano nel microclima dei pub inglesi e che il giro di Baby Stick Around è in fin dei conti accostabile ad uno dei tanti refrain dei Clash, così come le vaghe influenze reggae che affiorano qui e là su pezzi come Look Sharp!, Sunday Papers, Fools in Love e l’incredibile tiro della conclusiva Got the Time.

Joe Jackson si fa carico di raccogliere, come Elvis Costello, l’eredità di quella stagione per elaborare un cantautorato esuberante ed aperto alla contaminazione tra classico e moderno, fra stile autoctono e influenze allogene. Ne viene fuori un disco appuntito ed equilibrato, vecchio e nuovo allo stesso tempo, con gli occhi che guardano fin dove l’orizzonte permette di guardare (dal doo-wop al reggae, dal soul al calypso, dal pub-rock al power-pop) alzandosi sulle punte delle sue scarpe smaltate oltre il muro del punk e della new-wave. Joe Jackson inventa il futuro riassemblando i congegni arrugginiti del passato, riportandoli a nuova vita e rivendendoli agli incroci della sua città.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE GODFATHERS – Hit by Hit (Corporate Image)

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Le mani preziose di Vic Maile (sue le produzioni più assordanti del rock and roll inglese, da Live at Leeds degli Who a Down by the Jetty dei Dr. Feelgood, da Ace of Spades dei Motörhead a New Guitar in Town dei Lurkers, da Teenage Depression di Eddie & The Hot Rods a Demolition delle Girlschool) fissano su vinile la prima raccolta di “successi” dei Godfathers, il gruppo che riporta in auge il pub-rock alimentandone la caldaia col carbone estratto dalle miniere del combat-rock. La band nasce come Sid Presley Experience, il gruppo dove i fratelli Peter e Chris Coyne mettono a punto il loro repertorio di garage rock famelico immortalato su due splendidi singoli del 1984. Nel maggio successivo il gruppo ha già cambiato nome e assetto ma, fondamentalmente, non la musica disseminata nei quattro singoli pubblicati per la propria etichetta prima del grande salto in braccio a mamma Epic e culminati con la realizzazione di Love Is Dead in concomitanza con la rappresentazione del massacro di San Valentino presso il London Dungeon. Quella delle tematiche truculente dell’immaginario horror e gangster è infatti l’altra caratteristica del quintetto inglese, pur dissimulata dietro una facciata di formale eleganza in cui abiti in tinta unita e candide camice bianche la fanno da padrona, anche nelle foto a corredo di Hit by Hit, l’album che chiude il periodo indipendente dei Godfathers raccogliendo tutti i pezzi dei singoli.

Il suono a volte ammicca al refrain da hair band tipico del periodo ma la forza di pezzi come I’m Unsatisfied, This Damn Nation, Can’t Leave Her Alone, Angela o della cover di Sun Arise così come le evocative atmosfere surf di John Barry e quelle western di Gone to Texas restano a testimonianza di uno degli album più sanguigni del rock ‘n’ roll inglese di quell’anno. E anche uno dei più dimenticati.    

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE PROFESSIONALS – I Didn’t See It Coming (Virgin)

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Mentre John Lydon “avanza” verso la destrutturazione del rock, i vecchi compagni Steve Jones e Paul Cook “regrediscono” verso il pub-rock e il power pop. I Professionals, questo il nome scelto per la nuova band, diluiscono il punk in una sorta di combat-rock abbastanza inoffensivo che vede Steve Jones impegnato anche nel ruolo di cantante, come ai tempi pre-Pistols degli Swankers. Rispetto a quel progetto effimero, i Professionals sarebbero diventati la “sua” band più o meno definitiva nonostante un precoce scioglimento già l’anno successivo all’uscita di I Didn’t See It Coming, secondo album registrato ma primo ad essere pubblicato dal gruppo, intanto liberatosi dal bassista che ne aveva impedito la pubblicazione.

L’album si lascia ascoltare ma non ha momenti esaltanti e la chitarra di Steve sembra come “imprigionata”, costretta a confrontarsi col rifferama privo di potenza e di idee di Ray McVeigh e a spartirsi la scena con una piccola sezione fiati che cerca di mettere in pratica i rudimenti del soul, senza mai riuscirci del tutto. Lasciando, come l’intera band, ben pochi segni memorabili del suo passaggio.     

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE VIBRATORS – Pure Mania (Epic)

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L’immensa influenza che il pub-rock aveva avuto sul punk inglese è percepibile nel debutto dei grandi Vibrators, capaci di coniugare quello spirito (e quello altrettanto basilare ed essenziale del beat e del power-pop) con la nuova immagine teppista del punk. Ne esce fuori un documento come Pure Mania, coi margini ripiegati su sé stesso. I Vibrators si tengono a distanza dal punk politicizzato così come dalla furia anarcoide dei Pistols e lavorano su strutture in realtà già abbastanza “praticate” nel periodo proto-punk che li fanno apparire quasi obsoleti e retrò, soprattutto quando adottano le dinamiche del corteggiamento un po’ “oldies” nella, peraltro bellissima, Baby Baby che è tutta agghindata come ad un primo appuntamento romantico. Il resto porta l’effige della rozzezza che era propria del punk ma pure, come dicevo, del pub-rock.

Pure Mania si muove in quella intercapedine, prestandosi al ruolo di giovani punk ma portando avanti l’antica narrativa dei cuori spezzati e delle pratiche del rimorchio vecchia quanto il mondo. Non solo quello del rock and roll.   

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

ELVIS COSTELLO & THE ATTRACTIONS – This Year’s Model (Radar)

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Il secondo disco di Costello suona più fresco e giovane del suo primo, sopravvalutato debutto dell’anno precedente, pur senza rimuovere del tutto quella patina di “oldies” che le canzoni del musicista britannico hanno mantenuto per tutta la sua carriera.

Rispetto al più compassato My Aim Is True, This Year’s Model risulta più brioso, con le sue aperture sfacciate verso il power-pop (i due minuti clamorosi di No Action, il refrain di Hand in Hand), il beat-rock degli anni Sessanta (You Belong to Me, poggiata sul riff di The Last Time degli Stones e spinta da un organetto alla Sir Douglas, il driving-beat frizzante tinto di soul di Pump It Up ma anche la magnifica corsa di Lipstick Vogue, capolavoro non riconosciuto del disco) e il rocksteady (il grande giro di basso di (I Don’t Want to Go to) Chelsea)) che lo rendono contagioso e a suo modo memorabile, pur collocandosi in una posizione sbilanciata rispetto all’attualità musicale di quegli anni e continuando a guardarsi indietro mentre corre in avanti.

Col rischio perenne e perennemente scongiurato di spaccarsi il muso.                  

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

NINE BELOW ZERO – Third Degree (A&M)

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Dopo aver a loro insaputa inaugurato il revival neo-mod inglese i Nine Below Zero riscattano in qualche modo la loro paternità seguendo in tour i Kinks e gli Who prima di chiudersi in studio per realizzare il loro terzo album e quindi, sfibrati da un calendario così serrato che ha logorato i rapporti fra i musicisti, sciogliersi salvo poi tornare anni dopo ed avviare una carriera infinita divisa, come era già in origine, fra grandi esibizioni live e sbiadite copie in studio, col materiale autoctono che fatica a tenere testa alle incendiarie versioni di classici dell’R&B, della soul music, del rock & roll e delle novelty songs che arrovellano i loro spettacoli e una produzione che la A&M pretende sempre più stucchevole tanto da costringere, a cose fatte, la band a ri-registrare il tutto mettendo alla porta Glyn Johns in favore di Simon Bosvell, in quel medesimo periodo impegnato a produrre un altro Zero di nome Renato (le asciutte registrazioni originali verranno pubblicate per la prima volta solo nel 2014, mostrando le evidenti differenze di “tocco” fra i due, NdLYS).

Nonostante queste premesse Third Degree conserva una sua dignità e un suo fascino, sin dalla scattante Eleven Plus Eleven giù giù attraverso una scaletta di pub-rock che strizza spesso l’occhio, soprattutto nelle scelte armoniche delle parti vocali, alla bubblegum music di consumo degli anni Sessanta (pur se infettata con i lick chitarristici, i giri di armonica e le tinte d’organo tipiche del genere) finendo paradossalmente (come in You Don’t Love Me) per tradire il maschio suono dei Dr. Feelgood per la soul music incipriata di Wham! e Culture Club.

                                                                                      Franco “Lys” Dimauro