Molto prima di scrivere una delle dieci canzoni DECISIVE dell’era new-wave (Another Girl, Another Planet, qualora vi stiate chiedendo quale sia, NdLYS) Peter Perrett aveva già iniziato a praticare l’underground inglese, totalmente plagiato dall’ascolto di Transformer di Lou Reed e assuefatto al rock decadente delle icone Bowie/Pop/Bolan. Peter in seguito negherà questa influenza chiamando a sua difesa il folk urbanizzato di Dylan, ma nei 13 pezzi pubblicati postumi col titolo di Legendary Lost Album e registrati dagli England’s Glory in soli 5 giorni nel gennaio del ‘73 e tra cui figurano le primitive versioni di City of Fun e Peter and the Pets poi rielaborate dagli Only Ones si avverte la stessa grigia e annoiata indolenza che volava sul Satellite of Love di Reed per atterrare con l’Astral Plane dei Modern Lovers sulla Good Feelings delle Violent Femmes: l’urbanità marcia, torbida e deviata di quelle ballate metropolitane cariche di tubi al neon e sporcizia accumulata ai bordi delle avenues americane.
E dove cazzo lo infili un disco così?
Dico, se hai un negozio di dischi, dove lo metti?
Nello scaffale del punk?
In quello della new-wave?
Forse che starebbe meglio in quello dedicato al power pop? Quello che nessuno va mai a visitare?
Oppure in quello dedicato alla glam music. Che tanto qualcuno che va a rovistare tra David Bowie e Lou Reed c’è sempre, anche solo per ricordarsi di essere stato giovane pure lui.
E se avete uno di quei negozi che usano le ancor più approssimative categorie Rock e Pop?
Be’, se avete uno di quei negozi, saprei io dove infilarvelo.
Ma probabilmente avete già fatto da voi, spostandolo magari dal primo scaffale al secondo quando Another Girl, Another Planet è diventata la gonzissima colonna sonora dello spot Vodafone aiutandovi a vendere qualche copia di uno di quei dischi che da anni non avete mai saputo rifilare a nessuno perché in fondo non piaceva manco a voi.
Perché The Only Ones è un disco che parte sbagliato.
Un album che ha dentro due cose come Another Girl, Another Planet e City of Fun e decide di non esibirle subito, è un album che vuole orecchie attente.
Quelle che il punk, qualsiasi cosa voglia dire nel 1978, non può garantirgli.
I quattro ragazzi di Londra hanno azzeccato il nome però.
Perché, a parziale difesa del negoziante di dischi di cui all’inizio, gli Only Ones unici lo erano davvero.
Disperati di una disperazione dandy e romantica.
Ribelli di una ribellione elegante e raffinata.
Gente fuori posto.
Ne’ coi buoni, ne’ con i cattivi.
Dicevamo dell’ apertura “sbagliata”.
Affidata ad un pezzo notturno come The Whole of the Law. Ci si aspetta si alzi il sipario e invece Peter Perrett lo sta già chiudendo. Sassofono languido, pennellate di chitarra, batteria smooth, voce dolente. Un pezzo da struscio.
Spiazzante, in un anno in cui gli album più belli si aprono con Uncontrollable Urge, Fast Cars, Safe European Home, Non-Alignment Pact, Radios in Motion, Practice Makes Perfect. Anthemiche e simboliche già dal titolo.
Dopo due minuti e mezzo però arriva Another Girl, Another Planet. E davvero si vola verso un altro pianeta.
Una canzone perfetta, se mai ne è stata scritta una.
Dall’intro di chitarra stoppata allo scivoloso fraseggio che introduce alla strofa e poi da questo al ritornello appiccicoso e ancora da qui alla seconda parte del pezzo, gli stacchi che precedono il lancio dell’assolo e poi di nuovo in orbita verso la galassia del pop perfetto.
Un’altra ragazza, un altro pianeta. E tutti speriamo siano i nostri.
Dopo di lei si atterra su Breaking Down. Altro pezzo spiazzante, visti i tempi, dove vengono fuori gli influssi hippiedelici portati dai veterani Mike Kellie (a lungo tra le fila degli Spooky Tooth) e Alan Mair (fondatore e bassista nei Beatstalkers, il più importante gruppo beat scozzese, dal ’62 al ‘69 NdLYS). Brano carico di suggestioni sixties con un organo e un ponte quasi doorsiani e la voce di Peter che dai toni morbidi della strofa si apre a quelli nasali dell’inciso.
City of Fun, a ruota, è uno dei migliori “scarti” degli England‘s Glory.
Un boogie a rotta di collo guidato dalle chitarre sicure di Peter e John Perry attraverso i campi di pailettes dei T. Rex e degli Spiders from Mars, quelli pieni di rifiuti urbani dei Dead Boys e degli Heartbreakers o quelli di fili elettrici dei Television con i quali ultimi la band si imbarca nel suo primo tour a promozione del disco e con cui condividono l’amore per certe cavalcate chitarristiche dell’acid rock californiano degli anni Sessanta. Grateful Dead, Buffalo Springfield, Quicksilver: The Beast le sfoggia illuminate dai bagliori dei quartieri a luci rosse di Londra.
Altrettanto schizofrenica la seconda facciata del disco, divisa tra rapidi e schizoidi brani dal taglio punk come Language Problem (la cosa in assoluto più assimilabile al concetto estetico ed espressivo del punk mai inciso dal gruppo, NdLYS) e The Immortal Story e fantastiche ballate urbane come No Peace for the Wicked o It‘s the Truth.
Se non sapete in quale scaffale metterlo, mettetelo pure nel mio.
Reparto “dischi fondamentali”.
Gabbiani con le ali sporche di catrame, gli Only Ones regalano al 1979 il loro album-capolavoro, finito chissà in quale anfratto della memoria collettiva. Oscurato forse dalla grandezza di un singolo inarrivabile qual era stato Another Girl, Another Planet, che avrebbe oscurato chiunque, figurarsi le sorti di una band che sembrava predestinata ad una eclissi junkie inspiegabile, viste le qualità artistiche che avrebbero dovuto alzare la storia della band molte spanne sopra la media delle band new-wave cui il destino avrebbe riservato ben più fulgida e spesso duratura fortuna, e a disintegrarsi sul guard-rail senza riuscire ad oltrepassare il confine del loro romanticismo tossico borderline che si respira a pieni polmoni dentro Even Serpents Shine, perfetta caramellatura sul rock ‘n’ roll del maestro Johnny Thunders.
Un disco torbido eppure di una avvenenza narcisa e dionisiaca, il secondo Only Ones. Ravvivato da un torrente di tastiere sgorgato chissà come da qualche sorgiva sixties come quello che scorre su Flaming Torch, da qualche piccolo passo di bolero, da fortunali di chitarre che sospingono i bellissimi intrecci di voci che colorano canzoni come No Solution e Programme, punk più nei titoli che nei risultati o che scivolano languide sulla Out There in the Night dedicata da Peter Perrett al suo micio o nel “quasi” muto strumentale di coda in cui Peter ci priva del piacere della sua voce da angelo bello e dannato, ravvivando il desiderio di ricominciare da capo il naufragio dentro questo mare dove i serpenti brillano, prima di stringersi al collo.
Quando nel 1981 Johnny Marr, pochi mesi prima del fatidico incontro con Morrissey che si concluderà con la nascita degli Smiths, viene arrestato per aver rubato un’opera d’arte di LS Lowry, finisce in gattabuia con tutto quello che si trova addosso. E quel che si trova addosso sono un paio di Clarks, un paio di jeans ed una T-shirt di Baby’s Got a Gun degli Only Ones. Johnny Marr segue la band dei fratelli Perrett con un fanatismo che ha quasi dell’ossessivo, non mancando mai un loro concerto nel Nord-Ovest dell’Inghilterra.
In quel 1981 e proprio con quel terzo album però gli Only Ones sono arrivati al capolinea. Con ancora un sacco di belle parole sulle labbra di Peter Perrett, incrocio perfetto fra Barrett e Thunders e una manciata di canzoni torbide ed eleganti come il piscio di un dandy. In questo caso, per la prima volta, abbinate ad un pezzo altrui (Fools di Johnny Duncan cantata assieme a Pauline Murray dei Penetration che avrebbe potuto diventare una canzonetta di successo, ma non lo ha fatto). Canzoni che in qualche occasione (la bella Re-Union è una di queste) ricordano molto da vicino le sghembe impronte lasciate fresche sul suolo inglese dai Soft Boys.
Trouble in the World, The Big Sleep, Why Don’t You Kill Yourself, Baby’s Got a Gun, My Way Out of Here e la malatissima Your Chosen Life (finita a fare da scialle alla versione 7” di Trouble in the World e poi aggiunta alla ristampa su CD) sono le ultime stelle cadenti che solcano il cielo sopra Londra in quell’inverno del 1980.
Poi il cielo collassa sopra gli Only Ones.
Quando nel 2004 i Libertines lo citano tra i loro eroi, molti pivellini passati da qualche mese a sfogliare il NME o Rumore si guardano attorno smarriti ed increduli. Who the f**k is Peter Perrett???? All’epoca Peter era uno che aveva già scritto una delle più belle canzoni di sempre, che aveva già sciolto due bands, che era riemerso dal nulla dopo 13 anni di silenzio per ripiombare nell’oscurità per altri dieci, prima che uno spot della Vodafone gli mettesse finalmente in tasca qualche meritato spicciolo per l’uso massivo di Another Girl, Another Planet. Woke Up Sticky era il disco che aveva spaccato il silenzio, nel ’96: un disco in cui l’amore per Barrett e Lou Reed si manifesta in 11 pezzi che lo avvicinano all’estro onirico di Robyn Hitchcock e Paul Roland e arricchiscono il suo breviario di rock decadente con due pezzi come Falling (con un attacco forgiato sul prototipo di Ag/Ap) e Land of the Free. Ecco chi ca**o era Peter Perrett.
Vieni qui Peter, fatti abbracciare.
Dove sei stato? Perché sei andato via senza dire un cazzo di niente a nessuno?
E questi sono i tuoi figli, Peter? Che ragazzoni che si sono fatti!
Ti trovo bene, anzi benissimo.
Sai che mentre non c’eri è passata una tua canzone in tv? Così tante volte che qualcuno ha finalmente comprato quel disco. E lo so che avrebbe dovuto farlo molto tempo prima, ma lo sai com’è fatta la gente, no?
Sai che invece adesso la tua nuova etichetta ha mandato assieme al disco una bella cartella stampa per spiegare ai giornalisti chi sei, cos’hai fatto, quello che hai scritto? Sai che l’hanno usata per scrivere del tuo nuovo disco un po’ dappertutto? Sai che continuano a paragonarti a Lou Reed, nonostante tutto?
E tu, invece?
Hai ripreso la chitarra?
Hai risolto quei problemi alla voce?
E quegli altri di cui si diceva in giro?
Non importa. Siediti e fammi sentire le tue nuove canzoni.
Sai che mi piacciono? Le trovo eleganti, le trovo confidenziali.
E sai che sono felice di non averle dovute consumare in fretta, come tutti, di non averle dovute umiliare con una sveltina, solo per scriverne nei tempi previsti, nei modi previsti, in maniera prevedibile?
Mi hanno fatto compagnia per mesi, i tuoi brandelli di cuore messi ad asciugare sul filo da bucato di How the West Was Won. Hanno rispettato i miei tempi e io ho rispettato il tempo che loro meritano. Hanno assecondato i miei sbalzi di umore e io ho trovato rifugio nei tuoi, come si dovrebbe da buoni amici.
Sai che sono canzoni che sembrano essere state lì da sempre, che aspettavano solo tu le raccogliessi da qualche cassetto, da qualche pattumiera, da qualche piega di quel letto dove forse sei stato per anni bruciando in polvere quegli spiccioli di diritti d’autore che meritavi?
Sai che sembrano davvero piovute da un altro pianeta?
Quindi ci sei andato alla fine?
Non importa. Vieni qui, fatti abbracciare.
Dopo aver abdicato dal mercato musicale per decenni, Peter Perrett sembra aver ritrovato la voglia di creare e di condividere.
Lui ringrazia il cielo per essere sopravvissuto. Malconcio, ammaccato ma vivo.
Noi ringraziamo il cielo per essere sopravvissuti con lui, di potergli attaccare addosso un numero sufficiente di cerotti e di bende che possano nascondere le ferite più evidenti e di poterlo infine riabbracciare.
Con Johnny Thunders non ne avemmo il tempo.
Con Lou Reed non ne avemmo il modo.
Sciocco sarebbe dunque, lui che a buon ragione può rappresentare l’anello placcato in oro che lega tutti e due, lasciarsi scappare questa occasione. Tanto più che Humanworld lo ritrae in una dimensione meno intimista rispetto al disco di due anni prima (però che cosa non è Heavenly Day se non uno strascico glam di un Lou Reed che ha appena lasciato il palco con la consapevolezza dolceamara che alla fatta dei conti a lui è andata meglio di tanti suoi compagni dei tempi in cui il mondo sembrava ancora tutto da conquistare e che adesso è invece un sepolcreto di croci?, NdLYS) e più desiderosa di confrontarsi con un sound da rock-band, finendo per mostrare in almeno un paio d’occasioni i denti, seppur cariati, degli Only Ones e di toccare, in questo suo nuotare nelle vasche del rock inglese, il bordo piscina affollato di synth degli Psychedelic Furs e, dall’altra parte, quello ingombro di chitarre dei primi Verve. Noi dalla tribuna continuiamo ad applaudire, anche quando qualche bracciata sembra più impacciata del solito. Perché Peter è un fuoriclasse, uno che ha una voce capace di placarti l’anima pur raccontandoti storie di tormento e di sogni che fanno il rumore di vetri infranti.
O quel rumore era quello di un cuore?
Probabilmente il suo.
Forse, il mio.
Franco “Lys” Dimauro