JAPAN – Oil on Canvas (Virgin)

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Oil on Canvas, registrato dal vivo all’Hammersmith Apollo nel novembre del 1982 durante l’ultima esibizione della loro carriera, è nella pratica una versione live di Tin Drum con l’aggiunta di qualche episodio dei due dischi precedenti (Nightporter, Swing, Quiet Life, Gentlemen Take Polaroids) e tre brevi tracce strumentali di ispirazione etnica (il gamelan per Voices Raised in Welcome, Hands Held in Prayer), ambient (Oil on Canvas) o tutt’e due le cose assieme (Temple of Dawn).

Dal punto di vista storiografico si tratta però del momento in cui il synth-pop inglese raggiunge la sua legittimazione artistica e in cui viene costruito il suo unico, altissimo, mausoleo. Non più folle urlanti di ragazzini ma quasi un religioso silenzio ne ratifica la sua elevazione dal più basso grado di musica di consumo a quello più alto di art-pop. Il suo salto di qualità coincide dunque con l’ultimo tuffo dei Japan, già con un corpo parzialmente mutato (Rob Dean viene ora sostituito da Masami Tsuchiya) ma uno spirito ancora integro, per preservare il quale la band deciderà di mettere il sigillo dorato alla sua carriera. Bruciando l’edificio. Per l’ultima volta.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BILL NELSON’S RED NOISE – Sound-on-Sound (Harvest)

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Se la vostra sacra trimurti contempla, in quest’ordine, Marc Bolan, Brian Eno e David Bowie siamo amici. Ma se vede al quarto posto Freddie Mercury, le nostre strade si separano qui. Perché il mio quarto posto è occupato da Bill Nelson.

Bill era stato, per cinque anni, il “bowie” dei Be-Bop Deluxe. Poi, portandosi dietro solo il tastierista Andy Clark e il fratello Ian, avrebbe dato vita nel 1979 ai Red Noise, quelli di un album incredibile come Sound-on-Sound dove glam rock, new-wave, elettronica trovano un esemplare linguaggio che lo colloca a metà strada fra l’art rock intellettuale di Brian Eno (la sinfonia per cucù a molle e synth di Out of Touch) e il rock “proletario” della Stiff (Stay Young è un pezzo al cui confronto anche Elvis Costello e Nick Lowe scompaiono come le civette all’apparir del giorno).  

Un suono spigolosissimo e sfavillante che produce capolavori di dinamica new-wave come Don’t Touch Me (I’m Electric), Art/Empire/Industry, A Better Home in the Phantom Zone, Stop/Go/Stop, Revolt into Style dove tutto è in continuo, perenne movimento e dove la sua frequentazione col glam rock trova una funzionale via per sorprendere ancora e capovolgere le mode ibridandole una nell’altra, in una forma che solo lui è riuscito a fare. Voi, tenetevi Freddie Mercury.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

ROXY MUSIC – For Your Pleasure (Island)

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Lo strand era stato uno dei tanti effimeri fenomeni coreografici che dalla metà degli anni ’50 e per circa un decennio aveva tentato la conquista del pubblico giovane riunito attorno al totem del juke-box. A proporlo, come forma di ballo di coppia, era stata Maureen Gray nel 1962, finendo nelle classifiche Billboard ma inabissandosi successivamente come corista di lusso per artisti come Bob Marley, David Bowie, John Lennon o Eric Clapton.  

Dieci anni dopo lo strand viene riportato “in auge” dai Roxy Music, anche se stavolta si tratta di qualcosa d’altro: una sorta di meta-danza empirica che dovrebbe coinvolgere tutte le arti, citando illustri predecessori come Leonardo da Vinci, Picasso e Nabokov fra i suoi estimatori.

Do the Strand apre il secondo album come una sorta di nuova Virginia Plain promettendo fuochi d’artificio che loro stessi si apprestano a spegnere sin da subito, abbassando le luci fino a farci confondere la silhouette di Bryan Ferry con quella dell’Elvis Presley confidenziale, prima di abbagliarci di nuovo con Editions of You, la cosa più assimilabile al proto-punk cui la band si sia mai avvicinata, con sax e moog a barrire all’unisono, come pachidermi messi in allarme dal nostro safari non annunciato. In realtà la band continua ad essere satellitare a tutto, mutando passo e ribilanciandosi ad ogni pezzo, finendo per lambire le terre teutoniche dei Can nella lunga The Bogus Man e sprofondando nell’abissale laguna nella spooky-song esistenziale di In Every Dream Home a Heartache col suo giardino appassito a far da concime ad un sepolcreto hippie.

Un disco che indaga sui mille volti del piacere e sui modi per tenerla al guinzaglio mentre la portiamo a spasso ad esplorare mondi inospitali.

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

ROXY MUSIC – Roxy Music (Island)

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Lo “spazio sonoro” abitato dai Roxy Music appare sin da subito vastissimo. E quel subito è, nella fattispecie, un album con un’avvenente signorina in copertina che sembrava ammiccare a qualche magazine soft-porno e voler svegliare i pruriti erotici degli avventori dei negozi di dischi. Dentro, un andirivieni fra passato e futuro, fra “proto” qualcosa (che non si sa ancora cosa sia) e “post” qualcosa, che per quanto li riguarda potrebbe valere sia per il prog che per il kraut-rock ma anche i Beatles e sempre più indietro fino a scomodare la melodia infinita di Wagner. Elettronica e rock and roll, declinati in ottica “arty”, ovvero fuori dai loro consueti recinti di genere e usati come carburante per questo vascello di argonauti che puntano verso qualunque cosa non sia il loro stesso pianeta. E lì, in quel posto dove intendono atterrare, vogliono portare un po’ tutto quanto è stato prodotto in musica fino ad allora, o quasi tutto.  

Le ambizioni sono altrettanto vaste, straripanti, debordanti. Volutamente schiaffate in faccia, tanto da stare sul cazzo a molti. A pelle, come quando io vedo entrare il mio capo struttura che si pavoneggia per il vestito appena stirato dalla donna di servizio. Non hanno le facce simpatiche, i Roxy Music. Hanno tutta l’aria di chi, di stare sul cazzo a qualcuno, non si fa cruccio.

Sono ingombranti.

E in questo compiaciuto ingombro si rivela tutta l’eredità del prog-rock crimsoniano che si portano appresso, assieme al loro paroliere.

Il gusto perverso di complicarsi la vita che gioca le sue carte vincenti in pezzi come Re-Make/Re-Model, If There Is Something, The Bob o la temperie romantica che investe Sea Breezes. L’equivoco glam generato dai loro abiti appariscenti cucito addosso al gruppo destinato invece ad accompagnare il progressive fin sull’uscio del punk, consegnandolo ad esso per poi separarsene.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SIMPLE MINDS – Sons and Fascination (Virgin)

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L’annuncio con cui la Virgin comunicava l’arrivo in scuderia dei “disco-rockers” Simple Minds era, una volta tanto, lungimirante: la band scozzese sarebbe diventata entro la fine dell’anno una delle più importanti band britanniche. In realtà quel successo sarebbe arrivato in leggerissimo ritardo, nell’aprile del 1982 col fortunato Promised You a Miracle ma Sons and Fascination aveva preparato il terreno con un produttore rispettabilissimo (pur avendo dovuto “glissare”, per motivi economici, sulla prima scelta Todd Rundgren che però lavorava solo nei suoi studi newyorkesi) come Steve Hillage e una serie di canzoni abbaglianti, laddove il disco precedente si muoveva ancora nell’oscurità.

La band di Glasgow è in una fase creativa talmente feconda da partorire addirittura un gemello siamese intitolato Sister Feelings Call ma fra i due è Sons and Fascination il disco che regala le emozioni più vivide e che mostra il salto di qualità, lo scarto definitivo, che fa intravedere lo scintillio dell’oro sotto la placcatura. In Trance as Mission, Sweat in Bullet, Boys from Brazil, Seeing Out the Angel, 70 Cities as Love Brings the Fall con i suoi muggiti elettronici e la bolgia stroboscopica di Love Song sono i Simple Minds eroi della new-wave, un bubbone sebaceo pronto ad esplodere al minimo contatto con un corpo estraneo, pronti per i grandi sogni dorati.

 

                                                                                     Franco “Lys” Dimauro

PETER PERRETT – Caramelle da uno sconosciuto

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Molto prima di scrivere una delle dieci canzoni DECISIVE dell’era new-wave (Another Girl, Another Planet, qualora vi stiate chiedendo quale sia, NdLYS) Peter Perrett aveva già iniziato a praticare l’underground inglese, totalmente plagiato dall’ascolto di Transformer di Lou Reed e assuefatto al rock decadente delle icone Bowie/Pop/Bolan. Peter in seguito negherà questa influenza chiamando a sua difesa il folk urbanizzato di Dylan, ma nei 13 pezzi pubblicati postumi col titolo di Legendary Lost Album e registrati dagli England’s Glory in soli 5 giorni nel gennaio del ‘73 e tra cui figurano le primitive versioni di City of Fun e Peter and the Pets poi rielaborate dagli Only Ones si avverte la stessa grigia e annoiata indolenza che volava sul Satellite of Love di Reed per atterrare con l’Astral Plane dei Modern Lovers sulla Good Feelings delle Violent Femmes: l’urbanità marcia, torbida e deviata di quelle ballate metropolitane cariche di tubi al neon e sporcizia accumulata ai bordi delle avenues americane.

 

E dove cazzo lo infili un disco così?

Dico, se hai un negozio di dischi, dove lo metti?

Nello scaffale del punk?

In quello della new-wave?

Forse che starebbe meglio in quello dedicato al power pop? Quello che nessuno va mai a visitare?

Oppure in quello dedicato alla glam music. Che tanto qualcuno che va a rovistare tra David Bowie e Lou Reed c’è sempre, anche solo per ricordarsi di essere stato giovane pure lui.

E se avete uno di quei negozi che usano le ancor più approssimative categorie Rock e Pop?

Be’, se avete uno di quei negozi, saprei io dove infilarvelo.

Ma probabilmente avete già fatto da voi, spostandolo magari dal primo scaffale al secondo quando Another Girl, Another Planet è diventata la gonzissima colonna sonora dello spot Vodafone aiutandovi a vendere qualche copia di uno di quei dischi che da anni non avete mai saputo rifilare a nessuno perché in fondo non piaceva manco a voi.

Perché The Only Ones è un disco che parte sbagliato.

Un album che ha dentro due cose come Another Girl, Another Planet e City of Fun e decide di non esibirle subito, è un album che vuole orecchie attente.

Quelle che il punk, qualsiasi cosa voglia dire nel 1978, non può garantirgli.

I quattro ragazzi di Londra hanno azzeccato il nome però.

Perché, a parziale difesa del negoziante di dischi di cui all’inizio, gli Only Ones unici lo erano davvero.

Disperati di una disperazione dandy e romantica.

Ribelli di una ribellione elegante e raffinata.

Gente fuori posto.

Ne’ coi buoni, ne’ con i cattivi.

Dicevamo dell’ apertura “sbagliata”.

Affidata ad un pezzo notturno come The Whole of the Law. Ci si aspetta si alzi il sipario e invece Peter Perrett lo sta già chiudendo. Sassofono languido, pennellate di chitarra, batteria smooth, voce dolente. Un pezzo da struscio.

Spiazzante, in un anno in cui gli album più belli si aprono con Uncontrollable UrgeFast CarsSafe European HomeNon-Alignment PactRadios in MotionPractice Makes Perfect. Anthemiche e simboliche già dal titolo.

Dopo due minuti e mezzo però arriva Another Girl, Another Planet. E davvero si vola verso un altro pianeta.

Una canzone perfetta, se mai ne è stata scritta una.

Dall’intro di chitarra stoppata allo scivoloso fraseggio che introduce alla strofa e poi da questo al ritornello appiccicoso e ancora da qui alla seconda parte del pezzo, gli stacchi che precedono il lancio dell’assolo e poi di nuovo in orbita verso la galassia del pop perfetto.

Un’altra ragazza, un altro pianeta. E tutti speriamo siano i nostri.  

Dopo di lei si atterra su Breaking Down. Altro pezzo spiazzante, visti i tempi, dove vengono fuori gli influssi hippiedelici portati dai veterani Mike Kellie (a lungo tra le fila degli Spooky Tooth) e Alan Mair (fondatore e bassista nei Beatstalkers, il più importante gruppo beat scozzese, dal ’62 al ‘69 NdLYS). Brano carico di suggestioni sixties con un organo e un ponte quasi doorsiani e la voce di Peter che dai toni morbidi della strofa si apre a quelli nasali dell’inciso.

City of Fun, a ruota, è uno dei migliori “scarti” degli England‘s Glory.

Un boogie a rotta di collo guidato dalle chitarre sicure di Peter e John Perry attraverso i campi di pailettes dei T. Rex e degli Spiders from Mars, quelli pieni di rifiuti urbani dei Dead Boys e degli Heartbreakers o quelli di fili elettrici dei Television con i quali ultimi la band si imbarca nel suo primo tour a promozione del disco e con cui condividono l’amore per certe cavalcate chitarristiche dell’acid rock californiano degli anni Sessanta. Grateful Dead, Buffalo Springfield, Quicksilver: The Beast le sfoggia illuminate dai bagliori dei quartieri a luci rosse di Londra.

Altrettanto schizofrenica la seconda facciata del disco, divisa tra rapidi e schizoidi brani dal taglio punk come Language Problem (la cosa in assoluto più assimilabile al concetto estetico ed espressivo del punk mai inciso dal gruppo, NdLYS) e The Immortal Story e fantastiche ballate urbane come No Peace for the Wicked o It‘s the Truth.

Se non sapete in quale scaffale metterlo, mettetelo pure nel mio.

Reparto “dischi fondamentali”.

 

Gabbiani con le ali sporche di catrame, gli Only Ones regalano al 1979 il loro album-capolavoro, finito chissà in quale anfratto della memoria collettiva. Oscurato forse dalla grandezza di un singolo inarrivabile qual era stato Another Girl, Another Planet, che avrebbe oscurato chiunque, figurarsi le sorti di una band che sembrava predestinata ad una eclissi junkie inspiegabile, viste le qualità artistiche che avrebbero dovuto alzare la storia della band molte spanne sopra la media delle band new-wave cui il destino avrebbe riservato ben più fulgida e spesso duratura fortuna, e a disintegrarsi sul guard-rail senza riuscire ad oltrepassare il confine del loro romanticismo tossico borderline che si respira a pieni polmoni dentro Even Serpents Shine, perfetta caramellatura sul rock ‘n’ roll del maestro Johnny Thunders.

Un disco torbido eppure di una avvenenza narcisa e dionisiaca, il secondo Only Ones. Ravvivato da un torrente di tastiere sgorgato chissà come da qualche sorgiva sixties come quello che scorre su Flaming Torch, da qualche piccolo passo di bolero, da fortunali di chitarre che sospingono i bellissimi intrecci di voci che colorano canzoni come No Solution e Programme, punk più nei titoli che nei risultati o che scivolano languide sulla Out There in the Night dedicata da Peter Perrett al suo micio o nel “quasi” muto strumentale di coda in cui Peter ci priva del piacere della sua voce da angelo bello e dannato, ravvivando il desiderio di ricominciare da capo il naufragio dentro questo mare dove i serpenti brillano, prima di stringersi al collo.   

 

Quando nel 1981 Johnny Marr, pochi mesi prima del fatidico incontro con Morrissey che si concluderà con la nascita degli Smiths, viene arrestato per aver rubato un’opera d’arte di LS Lowry, finisce in gattabuia con tutto quello che si trova addosso. E quel che si trova addosso sono un paio di Clarks, un paio di jeans ed una T-shirt di Baby’s Got a Gun degli Only Ones. Johnny Marr segue la band dei fratelli Perrett con un fanatismo che ha quasi dell’ossessivo, non mancando mai un loro concerto nel Nord-Ovest dell’Inghilterra.  

In quel 1981 e proprio con quel terzo album però gli Only Ones sono arrivati al capolinea. Con ancora un sacco di belle parole sulle labbra di Peter Perrett, incrocio perfetto fra Barrett e Thunders e una manciata di canzoni torbide ed eleganti come il piscio di un dandy. In questo caso, per la prima volta, abbinate ad un pezzo altrui (Fools di Johnny Duncan cantata assieme a Pauline Murray dei Penetration che avrebbe potuto diventare una canzonetta di successo, ma non lo ha fatto). Canzoni che in qualche occasione (la bella Re-Union è una di queste) ricordano molto da vicino le sghembe impronte lasciate fresche sul suolo inglese dai Soft Boys.

Trouble in the WorldThe Big SleepWhy Don’t You Kill YourselfBaby’s Got a GunMy Way Out of Here e la malatissima Your Chosen Life (finita a fare da scialle alla versione 7” di Trouble in the World e poi aggiunta alla ristampa su CD) sono le ultime stelle cadenti che solcano il cielo sopra Londra in quell’inverno del 1980.

Poi il cielo collassa sopra gli Only Ones.

 

Quando nel 2004 i Libertines lo citano tra i loro eroi, molti pivellini passati da qualche mese a sfogliare il NME o Rumore si guardano attorno smarriti ed increduli. Who the f**k is Peter Perrett???? All’epoca Peter era uno che aveva già scritto una delle più belle canzoni di sempre, che aveva già sciolto due bands, che era riemerso dal nulla dopo 13 anni di silenzio per ripiombare nell’oscurità per altri dieci, prima che uno spot della Vodafone gli mettesse finalmente in tasca qualche meritato spicciolo per l’uso massivo di Another Girl, Another Planet. Woke Up Sticky era il disco che aveva spaccato il silenzio, nel ’96: un disco in cui l’amore per Barrett e Lou Reed si manifesta in 11 pezzi che lo avvicinano all’estro onirico di Robyn Hitchcock e Paul Roland e arricchiscono il suo breviario di rock decadente con due pezzi come Falling (con un attacco forgiato sul prototipo di Ag/Ap) e Land of the Free. Ecco chi ca**o era Peter Perrett.

 

Vieni qui Peter, fatti abbracciare.

Dove sei stato? Perché sei andato via senza dire un cazzo di niente a nessuno?

E questi sono i tuoi figli, Peter? Che ragazzoni che si sono fatti!

Ti trovo bene, anzi benissimo.

Sai che mentre non c’eri è passata una tua canzone in tv? Così tante volte che qualcuno ha finalmente comprato quel disco. E lo so che avrebbe dovuto farlo molto tempo prima, ma lo sai com’è fatta la gente, no?

Sai che invece adesso la tua nuova etichetta ha mandato assieme al disco una bella cartella stampa per spiegare ai giornalisti chi sei, cos’hai fatto, quello che hai scritto? Sai che l’hanno usata per scrivere del tuo nuovo disco un po’ dappertutto? Sai che continuano a paragonarti a Lou Reed, nonostante tutto?

E tu, invece?

Hai ripreso la chitarra?

Hai risolto quei problemi alla voce?

E quegli altri di cui si diceva in giro?

Non importa. Siediti e fammi sentire le tue nuove canzoni.

Sai che mi piacciono? Le trovo eleganti, le trovo confidenziali.  

E sai che sono felice di non averle dovute consumare in fretta, come tutti, di non averle dovute umiliare con una sveltina, solo per scriverne nei tempi previsti, nei modi previsti, in maniera prevedibile?  

Mi hanno fatto compagnia per mesi, i tuoi brandelli di cuore messi ad asciugare sul filo da bucato di How the West Was Won. Hanno rispettato i miei tempi e io ho rispettato il tempo che loro meritano. Hanno assecondato i miei sbalzi di umore e io ho trovato rifugio nei tuoi, come si dovrebbe da buoni amici.

Sai che sono canzoni che sembrano essere state lì da sempre, che aspettavano solo tu le raccogliessi da qualche cassetto, da qualche pattumiera, da qualche piega di quel letto dove forse sei stato per anni bruciando in polvere quegli spiccioli di diritti d’autore che meritavi?

Sai che sembrano davvero piovute da un altro pianeta?

Quindi ci sei andato alla fine?

Non importa. Vieni qui, fatti abbracciare.

 

Dopo aver abdicato dal mercato musicale per decenni, Peter Perrett sembra aver ritrovato la voglia di creare e di condividere.

Lui ringrazia il cielo per essere sopravvissuto. Malconcio, ammaccato ma vivo.

Noi ringraziamo il cielo per essere sopravvissuti con lui, di potergli attaccare addosso un numero sufficiente di cerotti e di bende che possano nascondere le ferite più evidenti e di poterlo infine riabbracciare.

Con Johnny Thunders non ne avemmo il tempo.

Con Lou Reed non ne avemmo il modo.

Sciocco sarebbe dunque, lui che a buon ragione può rappresentare l’anello placcato in oro che lega tutti e due, lasciarsi scappare questa occasione. Tanto più che Humanworld lo ritrae in una dimensione meno intimista rispetto al disco di due anni prima (però che cosa non è Heavenly Day se non uno strascico glam di un Lou Reed che ha appena lasciato il palco con la consapevolezza dolceamara che alla fatta dei conti a lui è andata meglio di tanti suoi compagni dei tempi in cui il mondo sembrava ancora tutto da conquistare e che adesso è invece un sepolcreto di croci?, NdLYS) e più desiderosa di confrontarsi con un sound da rock-band, finendo per mostrare in almeno un paio d’occasioni i denti, seppur cariati, degli Only Ones e di toccare, in questo suo nuotare nelle vasche del rock inglese, il bordo piscina affollato di synth degli Psychedelic Furs e, dall’altra parte, quello ingombro di chitarre dei primi Verve. Noi dalla tribuna continuiamo ad applaudire, anche quando qualche bracciata sembra più impacciata del solito. Perché Peter è un fuoriclasse, uno che ha una voce capace di placarti l’anima pur raccontandoti storie di tormento e di sogni che fanno il rumore di vetri infranti.

O quel rumore era quello di un cuore?

Probabilmente il suo.

Forse, il mio.     

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

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PSYCHIC TV – Force the Hand of Chance (Some Bizarre)

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Nati dalla diaspora dei Throbbing Gristle, gli Psychic TV di Genesis P-Orridge e Peter Christopherson cercarono di esasperare il lato esoterico della musica fondando una sorta di meta-religione “psichica” e aspirando ad una sorta di arte totale che non poteva prescindere dalla ricerca interiore così come dagli elementi rituali, simbolici, cabalistici, contemplativi, dogmatici e visuali che ne avrebbero dovuto comporre l’intricato puzzle. La musica come veicolo di un messaggio che gli Psychic TV si affrettano ad illustrare proprio in chiusura del loro album di debutto che, a dispetto dell’immagine poco rassicurante del terzetto, contiene alcune delle cose più carezzevoli, mansuete e inoffensive della new-wave inglese. Robetta da film rosa più che angoscianti musiche da horror-stories come ci si aspetterebbe insomma. Just Drifting, Caresse, Stolen Kisses sono poco più (anzi, poco meno) che innocue, ordinarie, svenevoli canzoni d’amore (dedicate alla moglie e alla bimba di Orridge) cui fanno da contrappeso le più inquietanti Terminus (sorta di western-noir stilizzato), No Go Go (con le pale d’elicottero di The Wall a roteare su un riff di chitarra sequenziale) e Guiltness (teatrale burlesque pieno di spasmi alla Virgin Prunes) che ne aumentano il peso specifico, per il resto davvero leggerino.

Il disco supplementare, interamente strumentale, si avventura invece dentro una musica etnico/tribale dall’intento psichedelico, rituale e meditativo e solo a tratti disturbante. È la parte più impervia e affascinante di un lavoro neo-romantico e decadente l’umanesimo concettuale di Orridge sceglie la via pratica dell’easy listening per infiltrarsi nella grande macchina della musica di regime (l’easy pop che sta monopolizzando radio e tv dopo l’onda al veleno del post-punk), conducendoci alla morte attraverso la via della noia.     

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

 

PETER GABRIEL – Peter Gabriel (Charisma)

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Non sono solo le chitarre di Paul Weller dei Jam e di Dave Gregory degli XTC a legittimare il terzo album di Peter Gabriel come uno dei capolavori “borderline” della new-wave inglese, quanto piuttosto la sua tensione drammatica e il suo approccio disinvolto verso i suoni contemporanei, la sua capacità di avvinghiare la scrittura archetipica del musicista inglese (quella che qui fa capolino su Family Snapshot) all’art-pop senza apparenti cesure, come se non dovesse dare conto del suo passato. Libero di volarci sopra e, volendo, di cagarci sopra, di accostarsi al nuovo senza l’indugio ottuso di sentirsi già vecchio per quel mondo.

Senza venirne travolto ma mostrando tutta la sua curiosità, Gabriel cede al fascino di musiche taglienti e all’occorrenza percorse da un senso di aspra inquietudine (la Intruder con la quale si introduce in casa nostra animato da pessimi propositi durante le nostre ore di sonno, facendo un rumore che sveglierebbe anche Cristo oppure l’affilata stilettata di I Don’t Remember) per affacciarsi alla fine verso quel “terzo mondo” musicale cui dedicherà grandissima parte della sua vita, con l’immortale inno di Biko, la canzone per i diritti civili per antonomasia, almeno per tutto quel decennio.

Peter Gabriel continua a guardare avanti, lungo una strada di cui non scorge la fine e che svelerà un prodigio nascosto dietro ogni sasso. Si plasma e riplasma all’infinito inseguendo la forma perfetta dell’uovo. Scorza, tuorlo ed albume. Proteine e vita.    

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

LAURIE ANDERSON – Mister Heartbreak (Warner Bros.)

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Una giungla di animali cibernetici che camminano dentro un enorme, labirintico circuito integrato. Mister Heartbreak rappresenta il passo successivo all’avvento degli uomini-macchina di kraftwerkiana memoria che invade tutte le creature senzienti e ne ristruttura la biosintesi e l’intero processo genetico. La “grande scienza” e la sua applicazione è dunque ancora il centro della ricerca di Laurie Anderson ma questa volta l’indagine si allarga dall’uomo all’ambiente, cosicché anche il suo canto sembra indietreggiare un po’, scegliendo spesso di bisbigliare come fosse un palombaro che cerca di comunicare con l’equipaggio che lo attende in superficie. E l’equipaggio è una ciurma di tutto rispetto: Peter Gabriel, Anton Fier, Bill Laswell, David Van Thiegem, Adrian Belew, Nile Rodgers, Phoebe Snow, Daniel Ponce, William S. Burroughs, Sang Won Park, mica gente che assoldi al molo per due soldi.

Ne viene fuori un disco pieno di increspature elettroniche e di onomatopee digitali, tutto lo schiudersi di un mondo atavico attraverso i pertugi di un filtro sintetico che lo preserva dall’estinzione e ne altera il respiro permettendone però l’ossigenazione. Un disco che ha vocazione ecologica e geocentrica ma anche un’ossessione per le macchine, senza che l’una sia ancillare all’altra. Con l’orecchio poggiato sulla crosta terrestre ed un occhio che guarda verso Oriente. Un disco che ha ancora fede in un mondo migliore, nonostante debba inventarselo pur di dire che esiste.  

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BLUE AEROPLANES – Bop Art (Abstract Sounds)

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Una sorta di officina sonora, quella dei Blue Aeroplanes, dove chiunque volesse poteva sperimentare con quel che trovava, attivando una sorta di economia circolare con i rottami di funk, post-punk, jazz, musica tradizionale e musica concreta. E concreta lo era veramente, la musica dell’ensemble di Bristol. Anzi, concretissima.

Bop Art è un coagulo di musica sperimentale sicuramente ispirata dal decostruttivismo radicale dei concittadini Pop Group e Rip Rig + Panic ma che incamera anche l’approccio moderno e suburbano al dub delle band On-U Sound (New Age Steppers, Dub Syndicate e African Head Charge in particolare) e l’eversiva forza meccanica della musica industriale cui fa da contrasto la ricerca percussiva di tipo tribale, in un incredibile caleidoscopico art-rock concettuale ma anche molto fisico, introducendo per primi quella figura del “festaiolo” danzante prima degli Happy Mondays e che negli anni prenderà sempre più la forma di una versione meno imbronciata dei Fall e che qui invece è ancora priva di argini e per questo, straboccante di idee che pochi riusciranno a raccogliere come avrebbero dovuto.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro