AA. VV. – Merry Luxmas – It’s Christmas in Crampsville! (Righteous)

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Christmastime is here again.

È Natale in tutte le case, le capanne e i cimiteri del mondo, anche a Crampsville, la terra di mezzo su cui governa lo spirito di Lux Interior.

Sotto l’abete addobbato a festa stavolta poco e quasi niente rock ‘n’ roll, quanto piuttosto rumbe e cha-cha-cha per cocktail al veleno, sputi R ‘n B, vertigini di coriandoli vocali doo-wop, piogge di carillon e campanelline, improbabili storie di renne dal naso rosso e ippopotami, cartoline dal Congo quanto dagli istituti di detenzione e dai reparti psichiatrici di tutto il mondo.

Gonnelline e berrettini rossi. Stelle filanti. Dolcetti di pan di zenzero per i bambini.

Dalla mangiatoia Gesù Bambino sembra sorridere.

Dall’inferno Lux sembra farlo il doppio.     

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

KING KHAN – Il Re è (semi)nudo

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Canada, metà anni Novanta.

Quello che sarebbe diventato King Khan si fa ancora chiamare Blacksnake e colui che diventerà Mark Sultan invece suona col viso completamente coperto, sotto il nomignolo di Creepy. Suonano un punk innestato su vaghe influenze sixties e con devozione assoluta per gente come Bo Diddley, Chuck Berry, Joey Ramone e Johnny Thunders. Un classico blend che non può sfuggire alla Sympathy for the Record Industry che su quelle polveri ha costruito la sua santabarbara.  

Il debutto della band canadese esce infatti per l’etichetta di Long Beach. Titolo e grafica di copertina sono rubate al famoso tour invernale di Big Bopper, Ritchie Valens e Buddy Holly durante il quale i tre eroi del rock ‘n’ roll persero le loro vite e noi la loro musica. È tuttavia un’eredità che si consuma solo nella scelta iconografica, perché Winter Dance Party è per il resto una sequenza interminabili di riff a manetta.

15 colpi tutti a segno, guardando il bersaglio per non più di due minuti alla volta. Spesso per molto meno.

Nessuno sparo a salve.   

Nessun tentennamento.  

I canadesi hanno mira buona.

 

Se il disco di esordio era tutto sommato un classico album punk-rock, Misbehavin’ volge lo sguardo degli Spaceshits verso gli anni Sessanta e Cinquanta in maniera più netta e decisa, utilizzando alcuni cliché tipici del periodo, seppur tutto venga sempre suonato ad alta velocità. Come dentro una decapottabile che dal Canada corre veloce verso la California.

Un disco deragliante dove ancora una volta la band di Mark Sultan e King Khan non sbagliano un solo pezzo, nonostante la mira volutamente imprecisa e i bersagli scelti in maniera arbitraria. Tra cui sicuramente quelli di Bo Diddley, dei Generation X, dei Ramones, dei Gruesomes. Canzoni funamboliche come She’s a Bad Luck Charm, Tell Me Your Name, We Know Where the Girls Are, Won’t Bring You Back, Turn Off Your Radio meriterebbero sorte migliore di quella cui sembrano destinate a schiantarsi contro.

Porn Losers.   

 

Sul fare del nuovo secolo, il punkettone dalla pelle ambrata si converte al soul. Così, per tutti coloro che si trovano a lagnarsi per aver sprecato i soldi comprando l’ultimo Jon Spancer, è d’obbligo asciugarsi le lacrime rubando Three Hairs and You‘re Mine di Mr. King Khan and His Shrines. Lo sporco meticcio di Re Khan tira fuori un party-album capace di mangiarsi ogni disco di Spencer da 5 anni a questa parte e di provocare movimenti al basso ventre degni di un live-set di James Brown. Merda, questa è soul music col pepe al culo (Kukamonga Boogaloo, Don’t Walk Around Mad, Live Fast Die Young, The Mashed Potato Itch, Tell Me….provate a resistergli e, se così fosse, fatevi controllare dal vostro urologo, NdLYS) capace di quelle classiche pause pomicione (Fool Like Me, Shivers Down My Spine) che ti fanno rallentare il culo per tentare l’operazione-rimorchio classica di ogni festa.

Il debutto degli Shrines diventa il mio disco del mese.

Di tutti e dodici.

 

Allo scoccare dei due anni, riecco il Papa Nero del moderno boogaloo, lo scimmione nato dall’incesto tra Screamin’ Jay Hawkins e Joe Bataan, il figlio svitato di Andre Williams e Mick Collins che ci concede un’altra ora di delirio soul. Appena un po’ meno debosciato rispetto al Three Hairs and You’re Mine di tre anni fa che godeva dell’Imprimatur di Liam Watson, Mr. Supernatural è comunque il campionario di stomps affogati nell’orgia ritmica di fiati e tastiere che era lecito attendersi. Il miglior party-album che possa capitarvi sotto le unghie, una valvola metrale che vi pompa sangue alle natiche e che può incrementare la produzione di ormoni riproduttivi nelle vostre feste, farcito di opportune pause pomicione per tentare l’operazione-rimorchio. Pezzi come la title track, Destroyer, Pickin’ Up, Lovetruck o Burnin’ Inside sono in grado di regalarti gli stessi sussulti al basso ventre del James Brown all’Apollo. E ditemi voi se è poco.

Ma l’anno non si è ancora concluso, che ecco un altro candidato a diventare disco dell’anno. 

Lo “scontro” è infatti quello tra due delle formazioni più cazzute del momento e tra due personaggi tutto sommato non molto dissimili nell’approccio verso il rock ‘n’ roll e inclini alle collaborazioni e ai progetti paralleli. Categorie cui questo Billiards at Nine Thirty tuttavia non appartiene, in quanto le band stanno chiuse nel loro recinto e mostrano ognuno dal loro lato del tavolo verde, i loro attributi metaforicamente rappresentati in copertina dalle stecche e dalle palle del biliardo.

Sei tiri per uno attorno al tavolo verde.

Ogni tiro, una buca.

Con i Dirtbombs che giocano spesso di sponda, affinando la tecnica dei tiri ad effetto (I Had to Chew My Own Leg Off, The House as a Giant Bong) sperimentata sul recente Dangerous Magical Noise ma che non rinunciano a mirare direttamente in buca, come nella strepitosa The Size of Ottawa. Che se ti attardi un attimo per bere un sorso di birra ti perdi il colpo.

Ma è un quarto d’ora dopo le 9:30, quando il gioco passa a King Khan e ai suoi Shrines che nel locale scatta l’afterhour alcolico. Agli inizi di Sweet Tooth si sente già il tintinnio dei bicchieri. Poi il gioco al biliardo si fa puro spettacolo alticcio e acrobatico, come se James Brown in persona fosse salito sul tavolo a bucare il tappeto strisciando e battendo il suo tacco cubano come ai tempi dell’Apollo.

Burnin Inside è un tripudio, un baccanale funky/soul che trascina giù anche le colonne del locale. 40 uccelli cercano scampo, prima di finire travolti anche loro dalle macerie. Take a Trip è il boogaloo tarantiniano ballato dai superstiti sulle rovine di questo tempio pagano.

Sono a malapena scattate le dieci.   

 

Un re e un sultano. Diventati sovrani dopo un’adolescenza da balordi in quel di Montréal e ora ritrovati quasi per caso ad Amburgo.

E così l’ex serpente nero e l’ex ago degli Spaceshits, che sono avvezzi agli espedienti, pensano di mettere insieme per strada il loro spettacolo di lo-fi rock.

Sull’insegna di cartone campeggiano i loro nuovi nomi: The King Khan & BBQ Show.

Due chitarre, un paio di tamburi e un microfono davanti al quale il Re indiano e il sultano italiano, canadesi di nascita e ora tedeschi di adozione si alternano cantando canzoni sguaiate come Love You So, Get Down, Got It Made, Pig Pig Pig, Shake Real Low, Am I the One, Outta My Mind che sono in percentuali variabili figlie di Buddy Holly, degli Stooges, dei Gruesomes, di Gene Vincent. La festa è meno ricca, meno colorata, meno prorompente di quelle organizzate da Khan con gli Shrines ma è giusto sia così. Questa è roba da buskers alticci, punti sul sedere dal forcone del diavolo per intonare qualche canzone sulle donne e sui vizi a cui non viene concesso di replicarne alcuna ma di usare il trucco diabolico di camuffarle sotto decine di maschere diverse, per poterle suonare infinite volte a noi pubblico sbalordito.  

 

Dopo il primo pasto del 2005 la cena viene servita l’anno successivo. Per l’occasione King Khan si è vestito da drag-queen e BBQ, ovviamente, da sultano. Sono gli avanzi del pranzo, che era già un pasto di avanzi. Panni soul sciolti nella varichina, stracci rock & roll logori e consunti. Qualche lentaccio da struscio (ricordate i Creeps di Darlin’? Ecco, quel genere di cose lì) e tanto rock and roll sornione e beffardo che cerca di sconfinare nel punk da garage in almeno un paio di occasioni. Nel country da galera in almeno un altro paio.

L’unica regola di What’s for Dinner? è non avere regole. O perlomeno attenersi a quelle sommarie dettate dall’amore per le frattaglie del rock, gli avanzi dei pasti ricchi con cui le rockstar sono diventate obese o cocainomani.

Uno spettacolo di viscere e liquidi corporali. Ecco cosa c’è per cena.   

 

Three Hairs and You’re Mine fu uno dei miei dischi dell’anno nelle playlists del 2002. Non serve ve ne ricordiate, ma è invece importante che serbiate memoria di quel disco. Un autentico R&B della giungla capace di ribaltare ogni festa e trasformarla in un vaso voodoo traboccante di sudore e liquidi vaginali.

Il tiro di quel disco si è via via smorzato, e non poteva forse essere diversamente. Ma King Khan continua a fare dischi che spaccano il culo e a tirar fuori le zanne, quando è necessario. Qui succede ad esempio mentre i primati ballano lo ye-ye su Land of the Freak. Ma What Is?! apre il mondo del Re ad altre influenze, molto più inquietanti: la trance angosciosa dei Velvet (vi dice qualcosa un titolo come The Ballad of Lady Godiva?) e certo free-jazz che da Sun Ra (Cosmic Serenade) arriva fino agli Stooges malati di L.A. Blues (Fear & Love è un bug che può perforarvi la mente, ai volumi opportuni, NdLYS). Meno ballabile, certo. Ma cazzo, anche stavolta lascerete la festa con la pelle solcata da lividi viola.

 

Una bestia nera. Un cuore indiano trapiantato a Montreal. Altro che banghra-pop e brimfuls of Asha. King Khan è la soul music del nostro tempo: sporca, corrotta e peccaminosa. Una creampie lattiginosa che schiuma dalla carne rosa di Tina Turner e delle Ikettes le cui gocce più dense vengono raccolte su una coppiera pubblicata dalla Vice col titolo di The Supreme Genius. Si va dal primissimo singolo del 2000 fino all’ultimo, eccellente What Is?!, tutto senza un momento di stanca. Convulso e psicotico voodoo-funky annegato nei fiati, deformato da una eccitazione sessuale nevrastenica, tesa e malata (come nel baccanale di Sweet Tooth) o rotondo e bavoso come le natiche di una chica (Live Fast, Die Strong dal primo inarrivabile album), figlio bastardo di James Brown (Tell Me), Sun Ra, Question Mark (Land of the Freak), Screamin’ Jay Hawkins (Shivers Down My Spine) e Ike Turner (Welfare Bread).

Pochi degni di rubarle il trono, Re Khan. Il regno è Suo!

 

Continua il viaggio antropologico-musicale di King Khan e Mark Sultan attraverso le condotte fognarie che li/ci riportano al frat-rock, al boogaloo e al doo-wop degli anni ’50 e ’60. Nel loro viaggio incontrano creature e mostri immaginifici.

Perché quello di Invisible Girl è pure l’ennesimo tuffo nel mondo della science fiction, dei mondo-movies, delle buffe gag dei Three Stooges. Un mondo che è parallelo a quello ordinario e grigio del quotidiano. Un mondo invisibile al pari della protagonista dell’album e dei mostri che lo abitano, che tuttavia possono liberarci dai nostri, almeno per mezz’ora. Canzoni come Tastebuds, Anala, Crystal Ball, Do the Chop, I’ll Be Loving You, Truth or Dare hanno esattamente questo potere.  

Molto meglio di quello che i vostri supereroi riescano a fare.  

 

Il termine “supergruppo” mal si adatta, per definizione, al rock ‘n’ roll di basso profilo. Non ci sono virtuosismi da esibire o innesti miracolosi. Il più delle volte sono collaborazioni “chiassose”, omaggi collettivi o condivisi alla musica amata, flirt consumati sotto l’ombrello del r&r spesso senza alcuna volontà o necessità di svelare al mondo con chi si è stati sotto le coperte.

Silky di Andre Williams era un disco così. The Get-Down Imperative del King Sound Quartet era un disco così. Tasty dei Demolition Doll Rods era parimenti un disco così. Gli album degli Heavy Trash erano dei dischi così.  

Esce ora questo The Almighty Defenders che è, come quelli, un album dove si consuma un atto d’amore collettivo, sotto le stelle cadenti del rock and roll. I protagonisti di questa ennesima copula sono interessanti tanto quanto gli antefatti: i Black Lips si trovano in tour in India quando pensano bene, durante uno show a Chennai, di lasciarsi andare sul palco a qualche bacio gay e a una parziale seppur palese denudazione pubblica.

Il pubblico va in delirio. Ma non tutto. Qualcuno, a spettacolo concluso, avvicina la band nei camerini e suggerisce loro di lasciare il Paese il prima possibile, perché l’oltraggio al pudore in India è un reato punito con la galera. E loro rischiano grosso. I Black Lips non aspettano neppure di smaltire l’adrenalina che hanno ancora in circolo: saltano sull’auto che hanno noleggiato e in aeroporto prendono il primo volo disponibile. Che è un volo che parte dalle terre delle vacche sacre e atterra in Germania. I Black Lips salgono con i pantaloni ancora slacciati: in Germania hanno un paio di amici pronti ad andarli a prendere in aeroporto e ospitarli per tutto il tempo che serve.

I due amici si chiamano Mark Sultan e King Khan, stranieri in terra straniera come loro. Musicisti, come loro.

Ecco, l’estemporaneo progetto Almighty Defenders parte da qui. Come uno spy-movie che si incastra con una scheggia di vetro dello specchio infranto del sogno rock and roll. Ed è già bello così.

Una “superstoria” prima che un “supergruppo”. Il disco che documenta quell’incontro, consumato tra casse di birra e la voglia di un souvenir che celebri quella storia.

Potrebbero scegliere di farsi un tatuaggio.

Invece scelgono di fare un disco.  

Un disco “di fortuna”, un disco di scalcinato rock ‘n’ roll, di soul sbiancato, un disco dove convivono a qualche solco di distanza vaghi echi gospel e tremebonde atmosfere sinistre da scary-movie, canzoni d’amore e canzoni sui fantasmi. Canzoni che vanno bene per chi ama i Black Lips e per chi ama King Khan & BBQ Show.

E a chi crede che il rock ‘n’ roll val bene un oltraggio.

E una fuga nottetempo.  

E un disco.

  

Circolato solo in versione promo qualche anno prima, documentando alcune vecchie sedute di registrazione effettuate tra Berlino (dove vive tuttora) e Bordeaux durante i soggiorni europei del Re Nero del Canada, Turkey Ride esce ufficialmente a nome King Khan Experience nel 2011.

Gli Spaceshits si sono sciolti da pochissimo e King Khan si reinventa totalmente come cerimoniere di un’orgia soul-funk trascinante, folle e colorata. Siamo agli albori di quella che sarà la musica degli Shrines ma l’energia dirompente di quel gruppo è già tutta qui: ascoltate I Got Love, Knock Me Off My Feet o Hey Rudi e ditemi se riuscite a restare fermi. Folate di organo che ti spettinano come un soffio di bora, lampi psichedelici di chitarre wah-wah, pattern di batteria che sembrano scivolati via da un disco di James Brown e un groove funkedelico da branco animale. Il boogaloo di King Khan, quello che produrrà capolavori come Three Hairs and You’re Mine, Mr. Supernatural e Idle No More è già tutto qui.

L’estate pure.    

 

Dio Khan!

L’estate è finita e il disco dell’estate arriva adesso che le donne cominciano di nuovo a coprirsi.

Idle No More, ispirato dal movimento per i diritti civili nato in Canada lo scorso dicembre, Mr. King Khan (che Canadese è di nascita) rimette in piedi in fretta e furia i suoi Shrines lasciati a marcire per un intero lustro e assembla un nuovo, straordinario disco.

Un album che più di ogni precedente profuma di aromi sixties, nel consueto narghilè dal sapore boogaloo. Meno tossico rispetto a certi fumi che uscivano fuori dalle feritoie di What Is?! che lasciavano immaginare gli Shrines come una moderna versione della band di Sun Ra.

Qui sembra di stare con un piede ficcato nei dischi dei Love e il sedere infilato dentro il juke box che passa Nino Ferrer.

Un disco festoso, finchè non arriva il buco in gola di Darkness. Un atto di dolore che inaugura lo spazio dedicato al ricordo di Bobby Ubangi (Bad Boy), Jay Reatard e Jay Montour (So Wild). Due ultime pacche sulle spalle degli amici andati a far baldoria altrove.

Of Madness I Dream, inizialmente pensata per intitolare l’intero disco, è la ballata scivolata giù da un disco degli Stones (Beggars Banquet? Sticky Fingers? Let It Bleed?) che ci sorprende quarantenni bisognosi di un sogno per cui poter ancora sanguinare.

Un giorno farò una festa e inviterò tutti gli amici che mi sono rimasti.

Mi basteranno due metri quadrati e un disco di King Khan.

Non ci sono più gli Shrines a coprire le nudità del Re Khan su Murderburgers.

A porgergli il mantello e dividere con lui gli hamburger sono Greg Ashley e Oscar Michel, ovvero due/quarti di quelli che furono i Gris Gris. E il risultato, ahimè, si sente. L’energia positiva e travolgente dei dischi con gli Shrines è quasi del tutto dissipata, soffocata da una rilassatezza che non concede al ritmo che pochissimi Joule di energia (il tiro garage scriteriato di Teeth Are Shite, il suono dei Saints replicato quasi alla perfezione su Born in 77).

Murderburgers non ha insomma la stessa spettacolarità dei dischi con gli Shrines, preferendo adagiarsi su un folk rock che tenta addirittura l’assalto alle fortezze di Dylan (It’s Just Begun) e di Beck (Too Hard Too Fast), scivolando in realtà molto prima di aver raggiunto la salda certezza di una balaustra. Anche la carica esplosiva di Born to Die soccombe alla psichedelia sgraziata di Greg Ashley.

Un diversivo che concediamo con piacere a King Khan, per tutto quello che ci ha regalato in quindici anni di dischi.

Ma adesso ridateci gli Shrines, per favore.

E qualcuno dica al Re che è nudo.

 

Ci mettono più del solito, King Khan e Mark Sultan, a far confluire i loro impegni e mettere su un nuovo disco. Ben sei anni separano infatti Bad News Boys dal precedente Invisible Girl. Nel frattempo anche King Khan, seguendo l’esempio dell’amico fraterno, ha messo in piedi un’etichetta personale anche se per la vecchia sigla comune hanno scelto ancora una volta le garanzie della In the Red.

Di veramente nuovo ci sono i costumi di scena disegnati dalla moglie di Khan, due tute nere come la notte forate sui capezzoli e due mascheroni a coprire metà del viso con cui i due hanno dato il via al Nipples ‘n Bits tour e posato per le foto promozionali di rito. Per il resto, le canzoni scollacciate del duo non conoscono margini di miglioramento, e se per qualcuno questo può voler dire una “cattiva notizia” per altri, me compreso, non lo è. Nonostante continui a preferire le canzoni meglio rifinite degli Shrines, lo spettacolo che i due riescono ad allestire grattugiando solo due chitarre ha del prodigioso, riuscendo ancora una volta a riempire il foglio di schizzi rock ‘n’ roll, doo-wop e frat-rock (e anche qualche numero di punk schizoide come Zen Machines e D.F.O.) senza stare attenti ai margini. Anzi, imbrattando più quelli che le rigorose e composte righe a centro pagina. Avercene, di ultimi della classe così.   

 

L’acronimo relativamente anonimo nasconde in realtà King Khan e Fredovitch dei mai dimenticati Shrines più Looch Vibrato e Aggy Sonora dei francesi Magnetix, il che vi dà già la misura di un disco come “Stop und Fick Dich!”.  

Larry Hardy della In the Red, dal canto suo, garantisce e mette la firma sul registro dei testimoni in quest’ennesimo matrimonio artistico del Re Khan, il cui vizio di mescolare il proprio sperma a quello altrui supera di gran lunga le perversioni di qualsiasi caserma militare e di qualsiasi college universitario e pareggia le zozzerie di Mick Collins.

Nonostante qui (a casa mia, intendo. E nella mia auto, dove un loro album qualunque non manca mai, NdLYS) la nostalgia per i dischi degli Shrines rimanga a livelli altissimi, questo ritorno alle radici fracassone dei suoi venti anni quando, sotto il nome di Blacksnake, suonava il basso negli Spaceshits. Se però quel gruppo lì guardava verso il garage rock degli anni Sessanta, pur se attraverso l’oblò del punk, i Louder Than Death quell’oblò lo lasciano ben chiuso e, opportunamente coperto di vapore, ci scrivono sopra con le dita proprio la parola punk, scrivendo canzoni in classicissimo ’77-style come la bellissima ABC’s in Old Berlin, che è anche l’unico vero motivo per portarsi a casa questo disco. Non perché sia brutto, affatto, ma solo perché in realtà l’intero repertorio è prelevato in toto dai dischi dei Black Jaspers, in versione ancora più deragliante. Però se non avete quello e in ultima analisi anche se ce l’avete ma non lo ascoltate da dieci anni, potete tranquillamente sentirvi ancora teppisti ascoltando la musica del Dio Khan e dei suoi compari.

Messo in piedi in piena pandemia, il Global Solidarity Forever è un collettivo artistico fondato da King Khan assieme al leader delle Pantere Nere Malik Rahim con l’obiettivo di “sfruttare” i proventi artistici delle varie discipline artistiche degli affiliati per sostenere diverse iniziative che vanno dal sostegno dei lavoratori immigrati alla riforestazione delle zone colpite dagli uragani, dalla messa al bando della carta igienica e altri derivati del legno alla creazione di una “banca dell’insulina” per la comunità di New Orleans.

Soul Eruption è il primo album vero e proprio pubblicato sotto l’egida della GSF e il primo lavoro che King Khan si intesta a suo nome, continuando la sua circumnavigazione di tutte le musiche possibili e atterrando stavolta in territori hip-hop ispirati al funky primigenio di James Brown e George Clinton e alle gesta degli Invaders di Memphis raccontate nell’omonimo lungometraggio di Prichard Smith del quale Khan ha curato la colonna sonora assieme a Jack Oblivian. Il risultato non è da buttare ma a dispetto dei nomi detti prima, è un po’ arido di sudore e di groove. Esercizi riusciti neppure malaccio (See You in Hell, Get Up Off Yo’ Thang, The Plague of Putin) ma che sembrano costruiti un po’ a tavolino (sul desk forse suona più fico e rende meglio l’idea di quel che voglio dire) dando l’impressione che Khan si stia lentamente trasformando dal Dio della caciara nel Dio del cacio.

Dopo Barrence Whitfield anche King Khan cede all’infatuazione per lo space-jazz di Sun Ra e Pharoah Sanders pubblicando un disco di arcano, sfilacciato, schizoide e disarticolato jazz suonato da una tribù aliena nascosta dietro delle identità terrene che rispondono ai nomi di John Convertino, Brontez Purnell, Knoel Scott, Maureen Buscareno, Marshall Allen, Davide Zolli, Florent Mannant, Gillian Rivers, Allesandro Piretti, Daniel Allen, Max Weissenfeldt, Ben Ra e Martin Wenk oltre che l’onnipotente Dio Khan. The Infinite Ones è una deriva tortoisiana di ottoni, bastoni della pioggia, languidi fraseggi di chitarre e organi che alterna brani burrascosi, stemperate pause di jazz liquido e un paio di episodi che non avrebbero sfigurato su qualche disco dei Tuxedomoon come Xango Rising o Follow the Mantis. Non quello che vi immaginereste da King Khan, nonostante neppure lui sappia più cosa aspettarsi da sé stesso. “L’artista conosciuto come Blacksnake” è diventato una viscida tenia che vi abita nell’intestino. Pensateci, ogni volta che vi prude il culo.

Shrines per due/quarti e Magnetix per i restanti due, la King Khan Unlimited saluta il 2021 con un album che riporta il Re Khan dentro i territori del rock ‘n’ roll dopo la sbandata free jazz di The Infinite Ones.

Opiate Them Asses putroppo non va molto oltre il simpatico gioco di parole del titolo. Pur non essendo affatto un brutto disco, è uno di quei dischi di cui io e molti altri hanno già gli scaffali pieni e dunque faticherà a trovare spazio. E di certo non aiuteranno i video low-budget che ne hanno distillato il contenuto su YouTube, francamente brutti. Certo, non mancano canzonacce da canticchiare come Modern Frankenstein, Narcissist, Crime Don’t Pay o Al Capone’s Syphallytic Fever Dream però i bei tempi degli Shrines sembrano davvero definitivamente andati e la battaglia intrapresa da King Khan contro Ty Segall su chi riesce a pubblicare più dischi in un anno, finisce per dare la meglio all’uomo dalla pelle perlacea.

Il regno traballa.

Ci sono nuovamente John Convertino e Davide Zolli fra i musicisti coinvolti nel nuovo progetto di King Khan legato al jazz e alla musica etnica inaugurato con The Infinite Ones e ispirato stavolta all’omonimo programma di divulgazione scientifica canadese condotto da David Suzuki e che è il corrispettivo del nostro Quark. 

I nove pezzi di The Nature of Things non sono affatto malvagi (con una splendida e free Snarlin’ Lil Malcolm piazzata proprio in mezzo) ma la questione a questo punto è comprendere quale sia il pubblico che King Khan cerca o pretende di abbracciare avendo abiurato in parte o forse in maniera definitiva dal suo potentissimo R&B scegliendo uno stato di musicista apolide che tocca infinite terre senza mai approdare ad una. 

Agosto del 2023 vede la pubblicazione integrale della colonna sonora del documentario sulla storia degli Invaders, il gruppo per i diritti civili di Memphis, uscito nel 2015 e di cui King Khan si occupò della scrittura dell’intera parte musicale, con echi di soul music, spruzzi hendrixiani e funky “nebbioso”.

Siamo insomma ancora dentro i confini musicali del Re, poi abbondantemente superati negli anni successivi in molteplici e non sempre concrete direzioni. The Invaders invece, nonostante l’ambizione del progetto e l’altissimo orizzonte di attesa che ne è derivato, ha superato brillantemente la prova acquisendo credibilità anche al di là del suo compito primario di musica per film anche se alcune tracce sono ovviamente quasi del tutto simbiotiche a quelle delle immagini e dunque qui sembrano sdrucciolare un po’ fuori dalla carreggiata. King Khan porta a casa un gran bel risultato, anche se di fatto The Invaders resta testimonianza tardiva di un King Khan che quelle strade sembra averle abbandonate già da un po’, sterzando verso percorsi sempre più difficili da seguire.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro              

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JACKIE WILSON – He‘s So Fine / Lonely Teardrops (Hoodoo)

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Sono i primi due album di Mr. Excitement. O, se preferite, del Presley Nero.

In ogni caso, un intrattenitore indiavolato e dal passo assassino (che il giovane Michael Jackson studierà fotogramma per fotogramma per creare molte delle sue celebri coreografie, NdLYS) che spinse Elvis a nascondersi sotto il tavolo durante uno dei suoi concerti. Un interprete dall’estensione infinita ma con dei limiti di scrittura deficitari. Poco male se hai le spalle coperte da gente come Berry e Gwendolyn Gordy o Roquel Davis. Sono loro a mettere in piedi il repertorio del giovane nero di Detroit dalle parentele illustri (Levi Stubbs dei Four Tops e Hubert Johnson dei Contours tra gli invitati al cenone di Natale): It‘s So Fine, Reet Petite, Lonely Teardrops, Etcetera, I‘ll Be Satisfied, I‘m Wanderin’. Tutta roba sospesa tra doo-wop, soul e easy listening a cui il lettore medio di Rumore non oserà avvicinarsi se non per scoprire finalmente cosa cazzo “Jackie Wilson soleva dire” senza sentirselo raccontare da Van Morrison o da Kevin Rowland.

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

 

CHUBBY CHECKER – The Best of Chubby Checker (ABKCO)  

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Nonostante oggi sia vista come una delle cose più innocue e buffe in cui si possa venire coinvolti, il twist fu portatore di una delle più grandi rivoluzioni di costume della società moderna.

Ad inventarlo era stato, inconsapevolmente, Hank Ballard nel 1959 ma a farne un fenomeno di massa dalle proporzioni clamorose ci avrebbe pensato Dick Clark ovvero l’uomo più influente dell’America post-bellica, assegnando quel che in origine era la facciata B di un singolo R ‘n B nelle mani di un mulatto di nome Ernest Evens prontamente ribattezzato Chubby Checker e messo sotto contratto dalla Cameo Parkway, etichetta in cui egli stesso investiva parte dei suoi proventi e da cui riceveva larga parte dei guadagni. Lui si sarebbe ovviamente fatto carico di promuovere adeguatamente la nuova versione di The Twist sul suo American Bandstand, coinvolgendo il pubblico nella forza trascinante e liberatoria di quel ballo che era come “strofinarsi il culo con l’asciugamano mentre provi a spegnere due sigarette sul pavimento”.

Sembra una cagata pazzesca. Ma non lo è.

Perché il twist permette finalmente alle donne, considerate fino all’epoca del rock ‘n’ roll semplice “tappezzeria” delle sale da ballo costrette ad aspettare l’invito di qualche omino più o meno galante per potersi impadronire della pista da ballo, di ballare da sole.

Il twist non prevede compagno o compagna. Il twist è la danza dell’individuo e della moltitudine assieme. Ed è una rivoluzione importante, da cui non si tornerà più indietro.

La carriera, breve ma folgorante, di Chubby Checker è un continuo riadattamento di quell’idea: Twistin’ U.S.A., Pony Time, The Hucklebuck, Let’s Twist Again, The Fly, Slow Twistin’, Limbo Rock, Twist It Up, Let’s Limbo Some More, Popeye the Hitckhiker, Twistin’ Round the World e via le altre non sono che abilissime variazioni sul tema del “ballabile”.

Il passo di danza viene prima di tutto il resto. La musica non si fa portavoce di nessun altro messaggio se non quello di far muovere il bacino, di invadere la pista da ballo. Puro divertimento, pura energia cinetica. Entrando nei salotti della gente perbene con garbo e discrezione e facendo lentamente scivolare le loro figlie nei gironi della libertà sessuale che in quegli stessi giorni viene farmaceuticamente sancita con la commercializzazione al banco della prima pillola contraccettiva.

hold it, aww shake your fat fanny, i mean shake your fanny, twirl that thing gal twirl it, bring it, twist it a little bit…

        

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

SHA NA NA – The Golden Age of Rock ‘n’ Roll (Kama Sutra)  

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Una di quelle band inoffensive che piacevano, e piacciono ancora, solo agli americani.

Anche quelli insospettabili. Tipo Jimi Hendrix che li volle sul palco di Woodstock prima della sua esibizione. E così, la terza alba del festival venne investita da una discutibile febbricciola revival e da un’ancora più discutibile e fuori contesto coreografia di balletti old-fashion, pomate per capelli, pailettes.

Una merda assoluta in fatto di stile, diciamolo pure. Ma il pubblico del festival, rintontito da due giorni di musica, sesso e droghe, non se ne rese conto nemmeno (tanto che dell’esibizione del gruppo venne ripresa solo una piccolissima porzione, NdLYS). Lo scialbo fifties-rock degli Sha Na Na che aveva infiammato i cuori del campus universitario servì giusto come colonna sonora per accompagnare lo sciame di hippies che andava a svuotare vesciche ed intestini ai bordi del campo, in attesa che salisse sul palco il mancino di Seattle. Il loro show era più roba da avanspettacolo che un concerto rock, la loro visione del rock ‘n’ roll una roba che sapeva di lacca, gli intrecci vocali delle loro voci roba buona per le feste di fine anno accademico del campus universitario. Insomma, roba da musical. E infatti qualche anno dopo sarebbero finiti dentro Grease, il musical che celebrava l’America dei teenagers degli anni Cinquanta e che stavano a quelli della generazione hippie come Gianni Morandi con gli anni di piombo.

In realtà dietro il progetto effimero e frivolo degli Sha Na Na si nascondeva l’intenzione del loro creatore di sanare la spaccatura tra le frange pacifiste più intransigenti e i fanatici interventisti che di fatto scindevano in due il movimento studentesco della Columbia University, unendo di fatto le due fazioni sotto un’unica bandiera: quella del rock ‘n’ roll più spensierato. L’obiettivo era distrarre i ragazzi da ogni velleità o schieramento politico per invitarli a riassaporare il piacere degli impulsi primordiali. Tornare al pre-politico simulando una nostalgia che in realtà era studiata a tavolino e del tutto fasulla.  

Gli eccessi che covavano sotto quel mondo di cristallo sarebbero emersi nel 1974, quando dopo un concerto nella locale università di Charlottesville Vinnie Taylor, il venticinquenne chitarrista entrato nel gruppo tre anni prima era stato trovato nella sua suite all’Holiday Inn con le vene così piene di eroina che le si erano irrigidite come le corde della sua chitarra.   

La sua chitarra è quella che si può ascoltare sul doppio live The Golden Age of Rock ‘n’ Roll, ennesima ripetitiva pantomima di figuranti di Elvis e di Bill Haley pubblicata dalla Kama Sutra nel 1973 e che avrebbe di fatto dato il via a tutto il fifties-revival degli anni Settanta, imperversato su piccoli e grandi schermi a suon di American Graffiti, Happy Days, Grease e lo show televisivo degli stessi Sha Na Na.

A quel punto Vincent Taylor scompare dalla faccia della terra ma continua a vivere in quell’universo parallelo che è il pianeta del rock ‘n’ roll. Perché nel giugno del ’74, durante una visita alla sorella morente, il killer Elmer Edward Solly decide di mandare affanculo la custodia cautelare e l’accompagnatore affidatogli dal penitenziario e di darsi alla macchia. Ha bisogno di una nuova identità e quella notizia che aveva letto sul New York Times durante la detenzione un paio di mesi prima gli torna prepotentemente alla memoria. Così Mr. Solly decide di diventare Vincent Taylor. Non un Vincent Taylor qualunque, ma “quel” Vincent Taylor. Si reinventa una vita da rockstar e si presenta agli agenti di spettacolo come l’ex Sha Na Na, dichiara che tutto quello che era accaduto quel 17 aprile era solo una messinscena per uscire fuori dalla band e si presenta al pubblico con il nuovo nome di battaglia: Danny C. “The Bad Boy”. Lo avrebbe tenuto per ben venticinque anni, facendo serate con tanto di scritta Sha Na Na cucita sulla giacca, firmando autografi e rispondendo alle email dei suoi fan dal suo sito web ufficiale, mostrando un’innata capacità di entertainer, a suo completo agio nei panni di un Frank Sinatra del doo-wop.

Una mandrakata mandata a monte da una telefonata fra professionisti dello spettacolo. Non dall’FBI, non dalla CIA, non dalla Polizia della Florida o della Virginia o dello stato di New York. Semplicemente, una telefonata fra Tommy Mara e Peter Endleson dell’entourage degli Sha Na Na. Come se Raul Casadei chiamasse Guido Elmi per ringraziarlo per avergli mandato Massimo Riva e scoprisse invece di avere nei camerini Renato Vallanzasca. Uguale.

Una storia inverosimile, un’”americanata” nell’”americanata” che tuttavia regge, alla faccia degli identikit, per un quarto di secolo e che è stata raccontata su Who The (Bleep) qualche anno fa (visibile in lingua originale, finchè dura, a questo link: http://www.dailymotion.com/video/x19lakc). Una storia che da sola vale forse più di tutta quella degli Sha Na Na. Che artisticamente erano il vuoto assoluto e che tuttavia sarebbero durati più di ogni altro gruppo presente sul prestigioso palco di Woodstock.

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

THE RIVINGTONS – Papa Oom Mow Mow (SHOUT!)  

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Leggenda vuole che Turner Wilson, il nuovo acquisto dei sopravvissuti di quelli che erano stati fino a pochi mesi prima i Lamplighters e gli indisciplinati “ribelli” della Rebel-‘Rouser di Duane Eddy, si aggirasse per lo studio durante la registrazione di Moonlight in Vermont, secondo e ultimo singolo inciso sotto il moniker di Crenshaws, balbettando un incomprensibile scioglilingua gutturale. E che Kim Fowley, che stava presidiando il banco del mixer, avesse avuto in un attimo, in un solo attimo, una delle sue tante illuminazioni.

I Rivingtons nascono quel giorno, assieme alla leggenda della loro Papa-Oom-Mow-Mow. Con uno scioglilingua senza senso (“il suono più divertente che abbia mai sentito e del quale non capisco una sola parola” canta Al Frazier, non appena il volume sul baritono di Wilson glielo consente) che avrebbe contagiato il mondo come aveva fatto cinque anni prima il Wop-bop-a-loo-mop alop-bom-bom di Little Richard. Uno scioglilingua la cui eco avrebbe risuonato ancora e spesso sui successivi singoli dei Rivingtons: Kickapoo Joy Juice, Mama-Oom-Mow-Mow, The Bird’s the Word, la buffa cover di Slippin’ and Slidin’ erano ritagliate fondamentalmente su quel modello. Folli novelty songs per far scuotere a dovere culetti e uccelli nelle feste del liceo. Selvaggi neri che cacciavano la loro selvaggina bianca.

Un gruppo da prendere poco sul serio, non fosse che le modulazioni delle loro quattro voci oltre a quei gorgheggi da scimpanzè in calore erano anche in grado di spalmare badilate di grazia soul sulle ballate che, come da tradizione, occupavano le facciate B dei singoli. Bastino qui due cose enormi come Deep Water e Waiting per capire quanto.  

Oppure rendere oltremodo divertenti classici trafugati dai camerini di Ray Charles o Little Richard.

Un gruppo da portare ad ogni festa.

E, visto che non lo si può più fare, portarci almeno i loro dischi.

Come questa irrinunciabile raccolta di tutto il loro materiale inciso dal quartetto originale (Frazier lascerà per diventare il manager della band) per la Liberty tra il 1962 e il 1964 e liberare in sala il mitico uccello dei Rivingtons.

A-well-a everybody’s heard about the bird!

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

AA. VV. – Roll Your Moneymaker (Trikont)

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Prima del revisionismo sociale, politico e culturale che glielo avrebbe portato via, il rock ‘n’ roll era roba da neri.

Dovreste saperlo.

Ma di tanto in tanto è bene ricordarlo, visto che ancora oggi viene rappresentato con l’effige di Elvis Presley.

Roll Your Moneymaker val bene un ripasso.

Per ricordarci che il rock ‘n’ roll delle origini non aveva il ciuffo ma la pelle color ebano e che per un ventennio buono (diciamo dall’ uscita di Rocket 88 di Ike Turner fino ai dischi dei Led Zeppelin se proprio vogliamo, semplificando, circoscrivere, NdLYS) fu una costante rivisitazione della musica nera quella che dominò il gusto del pubblico ed ispirò la scrittura o la ri-scrittura degli artisti dominanti. Da Elvis ai Beatles, dagli Stones ai Cream, dai Grateful Dead ai Velvet Underground (tanto per capire, ascoltate la Sugar Coated Love di Lazy Lester, anno 1958, e confrontatela con la loro Run Run Run, anno 1967).

La raccolta della Trikont infila ventiquattro cartoline del ghetto che chiariscono il concetto e mettono in luce la commistione di generi (doo-wop, blues, hillbilly, gospel, jazz, musica tribale), l’audace libertà lirico-espressiva e la ricerca acustica (i primitivi ma efficaci esperimenti di Mr. Leonard Chess) che rese il rock ‘n’ roll delle origini rivoluzionario e sovversivo.

Bo Diddley, Chuck Berry, Etta James, Howlin’ Wolf, Andre Williams, Ike Turner, Slim Harpo, Joe Tex, Junior Parker, Johnny Watson, Rufus Thomas.

Odore selvatico di sesso e puzzo di alcol.

Chi punta sul rosso tenta la fortuna.

Ma chi punta sul nero non può sbagliare.    

                                                                                                Franco “Lys” Dimauro 

 

LITTLE RICHARD – Here‘s Little Richard / Volume 2 (Ace)

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Il rock ‘n’ roll fu densamente suscettibile di redenzioni, riscatti spirituali, espiazioni. E crisi mistiche.

I piedi ficcati nello zolfo ma le mani che bussano alle porte del Paradiso, insomma. 

Quando uscirono questi due dischi, il “piccolo” Richard Penniman aveva già avuto la sua. Era successo su un volo aereo durante il suo tour australiano con Gene Vincent ed Eddie Cochran. Il velivolo sta perdendo quota e Little Richard ci mette un attimo ad abiurare la sua causa e promettere a Dio di dedicarsi alla musica del Cielo, anziché a quella del Diavolo. L’aereo riprende quota, atterra a Sydney, Little Richard scende e butta tutta la sua chincaglieria nell’acqua torbida del porto.

Lui racconta di aver visto degli angeli rimettere in piedi il suo aeroplano. I maligni vociferano fosse la maniera più furba di sfuggire al fisco e tenersi i proventi strabilianti delle vendite dei suoi primi 45rpm.

Tornò a casa in nave. Sopra di lui, l’aereo prenotato per riportarlo a casa, piroettava giù affondando nel Pacifico.
La Specialty intanto “sfruttava” il fenomeno con l’uscita di questi due LP.

Micidiali.

Mentre le canzoni di rock ‘n’ roll abbondavano di doppi sensi, lui riempiva le sue di non-sense.

Scioglilingua volgari e inopportuni.

Come fare la conta in una stanza occupata da un’orgia.

Diceva lui che era il suo modo di pregare Dio. 

Gli occhi sempre al cielo, mentre le piante dei piedi battevano sul soffitto del Diavolo, rendendolo irrequieto. Finchè qualcuno gli avrebbe alla fine aperto la porta, esasperato. 

Piccolo, irriverente bastardo di un Richard.  

            

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

LittleRichardVolume2

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