STABBING JABS – Stabbing Jabs (Beast)

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Due quarti dei Chrome Cranks, un quarto dei Gang Green, un sesto dei Savages.

E anche se a volte il curriculum non conta, molte altre volte invece si, ed è proprio questo il caso degli Stabbing Jabs.

Mettendo a fattor comune l’amore per il suono stordente degli Stooges, Peter Aaron, William G. Weber, Chris Donnelly, Tim Moore e Andrew Jody mettono su un album che spacca le ossa, da quelli del cranio giù fino a quello sacro.

Si comincia con Broken Brain e l’immagine che ci si staglia in mente è quella dei Dead Boys, in una versione ancora più criminale e feroce. Bad Slime è invece una colata di metallo quasi post-core, come lo facevano negli anni ’90 formazioni come i Quicksand, dimenticati anch’essi. Un afflato, quello post-core, che è la vera matrice del gruppo, ciò che li differenzia sostanzialmente dai Chrome Cranks cui verranno per ovvi motivi paragonati e che invece qui affiorano solo raramente, per chi è capace di ascoltare senza giudizio a priori. Alle radici del punk si avvitano del resto le due cover del disco, recuperate dalle macerie dei bombardamenti su Cincinnati (Little in Doubt e Go-Go Wah-Wah dei Verbs e Dennis the Menace).

La band ha la forza esplosiva che le premesse lasciavano intuire, con pezzi clamorosi come Little Lamb, Drowning Girls, Radiation Love e il delirante cingolato noise di You’re a Drag a fare il vuoto attorno, ora che tutti sembrano affascinati dalle buone maniere e ammansiti dalla loro pensione da pompieri dimenticando di quando si professavano incendiari.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

IDLES – TANGK (Partisan)

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Gli IDLES con Chris Martin.

Che a leggerlo non ci si crede e a vederlo neppure. Il clamore suscitato dal video di Grace, un deep-fake modulato su quello di Yellow dei Coldplay con l’aiuto fattivo dell’intelligenza artificiale e di quella naturale di Chris che si è prestato per rendere ancora più efficace il risultato, lo ha reso però in qualche modo illuminante, tanto che quella suggestione pare riverberasi lungo tutto TANGK già dall’apertura affidata a IDEA 01, sorta di cimitero degli elefanti da cui affiorano le carcasse dei Radiohead e dei Massive Attack soffocate da un trip-hop plumbeo che preannuncia i cupi nuvoloni di diossina che coprono il cielo sopra la raffineria di TANGK anche quando dall’opificio, dietro le maschere antigas, ci sembra di veder transitare dai tornelli i Soul Coughing (POP POP POP), intossicati nonostante i dpi calati sul viso.

Quando dentro si lavora a pieno regime, ecco avvertire da fuori i rumori di presse e cilindri di Hall & Oates, Dancer, Jungle e in generale tutta la seconda fase del disco, eccezion fatta per la greve Monolith, tre minuti di espressionismo ricurvo come la lama di una roncola che si infilza nella carne e ne estrae l’ultimo pezzo di cuore. Poi, tutto esplode.

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

ADULKT LIFE – There Is No Desire (JABS)

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Il gioco si fa interessante.

A tre anni esatti dal debutto l’ex-Huggy Bear Chris Rowley e gli ex Male Bonding John Arthur Webb e Kevin Henrick tornano sul luogo del crimine e col medesimo segno grafico a raccontarci del calo dei desideri della loro ormai acquisita vita adulta.

Il “recinto” stilistico resta quello del debutto, con uno spesso muro di suono (Liberation Tags, 4:33, Sleazy, Future Cops) che sulla conclusiva Northern Translation assume le proporzioni di un bordone free ma che si lascia tuttavia penetrare nelle pochissime feritoie provocate paradossalmente proprio dal suo stesso rumoroso riverbero, come in Relationship Studies, Art of Boxing o lungo l’incedere di Rats. Spaccature e fratture che gli Adulkt Life riempiono prontamente con tutto quello che il loro bagaglio trafugato dall’Inghilterra dark-wave consente e che spesso si traduce semplicemente in un giro di basso tremebondo come nella più classica tradizione post-punk britannica.

Il risultato globale è un rock ferroso e opacamente metallico che si avvicina ancora una volta a quello dei Girls Vs. Boys, dei Constantines o dei più vicini Die Nerven, oltre che dei nostri mai troppo osannati Cut.

Un vascello d’acciaio nelle intemperie, con la ruggine a disegnare bave rossastre sulle paratie che nella luce torva della tempesta sembrano bocche di fuoco.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

QUICKSAND – Slip (Polydor)

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Lasciarsi affondare nelle sabbie mobili del post-core.

Un muro di suono fatto di malta fugaziana ed helmetiana: i Quicksand squarciano il cielo della cattedrale hardcore come le pitture del Correggio quelle delle cupole di Parma.

Il suono di Slip è granitico e feroce, assurgendo a modello per il nu-metal della metà degli anni Novanta in forza della sua natura impattante, dei riff scolpiti come muscoli di granito (Omission, Fazer e Dine Alone in particolare faranno scuola in questo senso), fungendo dunque da bridge fra le due scuole “post” delle musiche rock più violente, tanto da coinvolgere lo stesso bassista Sergio Vega nella carriera dei Deftones, una delle band che più ne avrebbero assorbito la lezione. Uno stile che, invece di limitarsi al manierismo tout-court riesce a “sottomettere” ai suoi principi anche il suono degli Smiths, in una cover di How Soon Is Now? relegata purtroppo ad una b-side e che invece è uno dei pochi omaggi dignitosi agli Smiths mai incisi.

L’influenza artistica, attitudinale della band di New York non avrà tuttavia in termini popolari sbocchi proporzionati alla sua portata: i Quicksand resteranno per sempre confinati in quel recinto che di dorato ha solo la placcatura delle band di culto, tanto che, beffa delle beffe, il disco della reunion pubblicato nel 2017 finirà nella classifica Billboard destinata alle band emergenti. Come un gruppetto di esordienti qualunque. Quattordici anni dopo aver diviso le acque ed averle ricongiunte.

                   

                                                                                         Franco “Lys” Dimauro

SOULSIDE – Less Deep Inside Keeps (Sammich)  

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Le luci su Washington non erano ancora tutte accese quando i Soulside vennero fuori col loro disco di debutto, nel 1987. L’anno in cui il chiarore sul cielo di Minneapolis era ancora troppo intenso per poter captare altre luci.

Eppure, Less Deep Inside Keeps rischiarò quell’estate pre-fugaziana come una folgore. Che vide solo chi guardava il cielo, si capisce. Less Deep Inside Keeps era un disco che teneva ancora i piedi ficcati nel fango del punk e dell’hardcore della prima metà degli anni Ottanta, eppure era già altrove. Come quell’adagio di Wilde secondo cui qualcuno di noi, pur coi piedi nella merda, guarda le stelle.

Lontano, ma non lontanissimo. Nonostante un calcio tirato mirando a Kingston come You’ve Heard It Before. Non il miglior tiro della partita, a dirla breve. Tanto che alla fine colpisce in pieno il palo di Looking Around, uno degli unici tre brani incisi quando la band si chiamava ancora Lünch Meat. A parte quella scarificazione reggae, tutto il debutto dei Soulside è rivestito di una spessa corteccia punk, elaborandone però la forma più o meno come stanno facendo in Italia i Kina, lavorando sulla planimetria punk-core per erigere strutture meno spartane rispetto alla progettualità prevista e richiesta dal genere, con canzoni come Dreams, Don’t Let Me Down, Over and Out, Pearl to Stone che sono pezzi da Novanta. Con tre anni di anticipo.   

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SACCHARINE TRUST – PaganIcons (SST)

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I Saccharine Trust di Los Angeles furono la terza band ad uscire sotto il marchio SST, dopo i padroni di casa Black Flag e gli amici Minutemen rispetto alle quali le canzoni dei Saccharine durano appena un poco di più e flettono verso il sound volutamente epifanico, grottesco e derisorio dei Dead Kennedys. La band californiana lavora con i cocci delle molotov lanciate in corsa dai bolidi dell’hardcore e li re-incolla dentro strutture più elaborate e complesse, senza cadere nella tentazione di composizioni cervellotiche ma creando una sorta di minuscoli rituali di blues pagano a metà strada fra Captain Beefheart e i Virgin Prunes.

La chitarra di Joe Baiza costruisce già le forme elaborate e spurie che saranno dominanti in tutto l’alternative rock del decennio, svincolandosi dai riff per modulare su accordi amorfi che poi si sbriciolano in un effluvio che ricorda per certi versi quelli dei Television dando forma a pezzi come Effort to Waste, Community Lie, A Human Certainty. I pezzi più serrati (I Am Right, We Don’t Need Freedom) strapazzano invece il punk sardonico dei Dead Kennedys per creare degli anthem derisori e beffardi, mostrando la lingua, il culo e il dito medio in un’unica mossa di sagace sdegno.  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro 

 

ZOMBEACHES – Cheers to the Future (Buttercup)

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Un suono cementato in decine e decine di concerti, come Zombitches prima e come Zombeaches dopo, senza modificare la pronuncia del loro nome e senza alterare l’attitudine, se non trovando una coesione sonora che prima mancava alla band di Melbourne, vagamente ascrivibile al giro post-core, col suo canto monocorde e le chitarre vorticose, possenti, coriacee, tigliose ed impenetrabili come una cortina di acciaio. Il riferimento più prossimo, lì nella terra dei marsupiali, è ai Mark of Cain per questa natura indocile che accomuna la band di Melbourne alla leggenda di Adelaide ma Cheers to the Future potrebbe piacere anche a chi ha in passato versato sudore per Henry Rollins e di recente si è fatto tatuare il nome degli IDLES in qualche centimetro della sua pelle.

Mutual Colour, il pezzo che più di tutti riesce ad offrire qualche presa a pioli in questa enorme parete da arrampicata in verticale sullo strapiombo, ma anche Glamour Muscles, Kosovo, Headlong, A Foreign Culture così come la cupa disperazione da trincea di Distractions Kill, Stay Focused sono pezzi colossali, enormi blocchi di granito che staccandosi dal costone roccioso rivelano una tana di serpi.    

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

NATION OF ULYSSES – 13-Point Program to Destroy America (Dischord)

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Sotto la stessa bandiera, circondati dagli stessi monumenti governativi i Nation of Ulysses erano la band in grado di contendere ai Fugazi, alla fine degli anni Ottanta, lo scettro di miglior gruppo di Washington D.C.. Impetuosi come quelli, con i Fugazi condividono i fratelli James e Brendan Canty sistemati dietro la batteria dei due rispettivi gruppi. Comune è pure, se vogliamo, la “missione”: usare l’hardcore come rampa di lancio per costruire il punk degli anni Novanta mettendolo al riparo dai cliché stilistici e dalla pantomima da circo rock che tuttavia, malgrado loro, tornerà a piantare il suo tendone. Al di là degli esiti del loro mandato quel che ci restano sono una manciata di dischi che sono diamanti grezzi in grado di splendere anche a molti anni dalla loro estrazione.

13-Point Program to Destroy America, ad esempio, è del 1991 ma è bello ancora oggi. Rispetto ai Fugazi si avverte qui qualche influsso no-wave e qualche rigurgito del punk grottesco dei Dead Kennedys. L’attacco di Spectra Sonic Sound è una folgorante rappresaglia hardcore reiterata dalla successiva Look Out! The Soul Is Back e un po’ più avanti dal panzer di Cool Senior High School (Fight Song) ma il vero capolavoro del disco è lo spicchio centrale costituito da Aspirin Kid (la loro The Waiting Room), Hot Chocolate City, P. Power, You’re My Miss Washington D.C., Target:U.S.A., Love Is a Bull Market, crude escrescenze che sporgono dal corpo punk dandogli quell’aria disperata che era tipica dei Replacements.

Come già le Pantere Nere venticinque anni prima, i Nation of Ulysses preparano la loro strategia per abbattere l’America.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

TRAGIC MULATTO – Loco por el sexo (Alternative Tentacles)   

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Un gusto per il provocatorio e l’osceno e una propensione innata, una vocazione quasi, a risultare sgradevoli. Uniti a un fiotto di sperma punk che nel suo viaggio alla disperata ricerca di fecondare un qualsiasi ovulo, finiva per inseminare e far germogliare una delle musiche più anarchiche della fine degli anni Ottanta. Che una roba simile uscisse dalle officine Alternative Tentacles non era dunque per nulla strano: i Tragic Mulatto erano una delle compagini post-punk e post-core più annichilenti della California, una mistura musicale che visivamente potremmo descrivere come Captain Beefheat che beve da una cannuccia un bicchiere di piscio degli X-Ray Spex. O, se preferite versioni meno disturbanti, dei Jefferson Airplane arruolati come artificieri punk, respirando napalm al mattino come il Colonnello Kilgore.

Freddy è l’agghiacciante baccanale che apre le danze con la voce di Flatula Lee Roth e i cori maschili a creare una disturbante atmosfera macabra attorno ad un testo talmente spinto che anche l’adesivo Parental Advisory, se ci fosse già stato, avrebbe confuso la sua pellicola di colla con una patina di sperma, sostanza che ossessiona la band e che è anche protagonista di Monkey Boy, lo strascicato blues alla Lydia Lunch che apre la seconda facciata, chiusa con l’attacco di peritonite di Twerpenstein, delirante capolavoro dell’hardcore più freak del decennio, con le sue contorsioni di tuba e le chitarre stritolate da una forza immane, smisurata, annichilente. I Tragic Mulatto si consegnano alla storia con un disco tellurico che seppellisce definitivamente tutto il beach-punk, vomitando sangue e fiele sopra San Francisco.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro