THE KWYET KINGS – Firebeat (That’s Entertainment)

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L’amore di Arne Thelin per il sixties-punk è insopprimibile.

E così, dopo i forfait di Joyful Tears, Cosmic Dropouts e Lust-O-Rama, decide di provarci ancora. La band ha un potenziale enorme: il suo album di debutto stampato in contemporanea anche dalla Screaming Apple è una bomba deflagrante dove ad esplodere sono, oltre al classico garage-punk pure il maximum R ‘n B e il dutch-beat (come nelle formidabili e accesissime Gonna Make You Smile Again e In Love with You).

La sequenza di cover di Richard and The Young Lions, Sevens e dei Firebeats, Inc. (la seminale band norvegese cui Arne deve gran parte del suo amore per la musica beat-punk) dimostra grandissima adesione ai canoni originali ma sono i pezzi scritti dai Kwyet Kings, in particolare Ain’t Nobody’s Business, Need You Baby e I Say Yeah oltre a quelle citate, a fare la differenza. Un disco fulminante da cui però la band prenderà parzialmente le distanze coi dischi successivi, spostandosi verso il power-pop con risultati meno entusiasmanti e, di certo, meno urticanti.

 

                                                                     Franco “Lys” Dimauro

HOLE – Live Through This (DGC)

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Che Live Through This abbia goduto del successo riflesso dei Nirvana e del suicidio di Kurt Cobain è innegabile, soprattutto se confrontato con i volumi di vendita rispetto all’album di esordio, praticamente quintuplicati.

Vero è però che, anche al netto dell’hype generato dai nuovi Sid & Nancy gli Hole riescono a creare un tipico prodotto dell’epoca di riflusso grunge, quella degli epigoni, senza sputtanarsi. Certo, le smussature rispetto al suono di Pretty on the Inside sono chiare ed evidenti, ma le unghiate di Courtney, Eric, Kristen e Patty sono veraci e qualche bel graffio sulla pelle lo lasciano eccome.

Che l’album soffra (o goda, pov) dell’ombra stilistica del marito, diviso com’è fra sfuriate esagerate e guanciali dove far decantare la rabbia, è un’evidenza che porta in molti a pensare che in realtà molti bozzetti siano opera proprio di Cobain (Gutless, Violet, Rock Star, Asking for It, She Walks on Me) e che anche l’affezionato e riuscitissimo omaggio agli Young Marble Giants, amatissimi dal marito, sia stato suggerito dal compagno.

Sarà croce e delizia degli Hole e di Courtney Love che dovrà sempre dimostrare più di altri, di TANTI altri, di essere credibile “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Come davanti ad una corte marziale. Riuscendo a sopravvivere, suo malgrado, a tutti e a tutte. Inseguita da una scia di sangue e di morte.    

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

UZEDA – The Peel Sessions (Strange Fruit)  

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Venti anni dopo la PFM sono i siciliani Uzeda a potersi vantare di essere la seconda band italiana fra le oltre 2000 band in totale ad essere chiamata da John Peel a registrare direttamente dentro gli studi della BBC dove il deejay inglese conduce dal 1967 il suo radio show. E così l’8 maggio del 1994 un panzer catanese fa il suo primo ingresso nei Maida Vale 4 e scarica punzonatrici, seghe circolari, scarificatori, martelli pneumatici, frese, trapani a colonna e un aspiratore per ripulire gli studi dagli scarti di lavorazione. Gli Uzeda sono pronti a registrare i sei pezzi che troveranno anche la gloria di una uscita discografica per la storica Strange Fruit. Tre panni sporchi tirati fuori dall’oblò di “Waters”, altre tre lastre di metallo appena sfornate e rivettate a velocità impressionante davanti ai nostri occhi e soprattutto sotto le nostre orecchie. Higher Than Me e Slow sono virulenti cicloni noise che preludono ai cataclismi vertiginosi di 4 e Different Section Wires.

Da quelle Peel Sessions gli Uzeda non torneranno più uguali a quelli di prima.

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

FIREWORKS! – Set the World on Fire (Crypt)

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Deragliante rock ‘n’ roll dal Texas. Tre chitarre e una batteria registrate in presa diretta in due folli notti passate a Memphis in compagnia di Jeff Evans durante una trasferta dalla loro Dallas, che non è esattamente quella che ricordate aver visto sugli schermi dell’omonima soap-opera. Qui, di sapone, se ne vede veramente ma veramente poco: il suono dei Fireworks! mesce nel torbidissimo letame del trashabilly di serie B come 50 Megatons di Sonny Russell o Just So You Call Me di Mac Curtis, qui ridotta ad uno strofinaccio per il banco di un saloon.

Pezzi come When She Passes By, One Way Ticket, Set the World on Fire, Deep Dark Jungle o la cover di City of People che pare suonata con clave e catene ci dicono ancora di un rock and roll morboso che non ha smesso di sputare in faccia ai benpensanti.

                                                                                    Franco “Lys” Dimauro 

ASTEROID B-612 – Forced into a Corner (Destroyer)

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L’uragano australiano.

Continuatori della gloriosa tradizione di Radio Birdman e New Christs, gli Asteroid B-612 perseguono con tenacia gli obiettivi già palesati col debutto con Forced into a Corner, ovvero tenere accesa la graticola su cui far colare il grasso succo del rock ‘n’ roll autoctono come fosse un enorme cilindro di kebab.

Anche quando la tirano un po’ per le lunghe (e qui succede in un paio di occasioni), giocando ossessivamente ed ipnoticamente attorno allo stesso riff, gli Asteroid B-612 sembrano mescere dentro un catino di magma rovente.

Il meglio arriva però quando il suono si arriccia e si intreccia in piccoli nerbi di rawk ‘n roll cuoioso come quelli di I’ve Had You, Plastic o Which Way pronti a scudisciarti la pelle fino a vederne affiorare il sangue. Costretti in un angolo, a subire e a godere dell’ennesimo gioco di ruoli del rock and roll.

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE PRETTY THINGS ‘N MATES with MATTHEW FISHER – “A Whiter Shade of Dirty Water” (Kingdom)

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Sulla carta, una bomba.  

Sul piatto, un po’ meno.

Un po’ come nei ristoranti stellati.

E qui di stelle ce ne sono tante: Phil May e Dick Taylor dei Pretty Things, Matthew Fisher dei Procol Harum, Tony Oliver più a sezione ritmica degli iNMaTES ma anche Don Craine e Keith Grant dei Downliners Sect, Jim McCarty degli Yardbirds (con cui May e Taylor hanno messo su, ad inizio degli anni ’90 la Pretty Things/Yardbird Blues Band realizzando due album di onestissimo ma trascurabile Chicago blues assieme all’asso della sei corde e dell’armonica Studebaker John, NdLYS), Jonathan Edwards dei Vibrators, Eddie Phillips dei Creation, Gary Lammin dei Cock Sparrer, Steve Hooker dei Bozmen del futuro braccio destro di Morrissey Boz Boorer.

L’idea originale, ovvero quella di un omaggio sentito al garage rock americano, viene in realtà “mascherata” facendo leva sulla notorietà di Fisher e dunque intitolando il disco con un ovvio riferimento ai Procol Harum oltre che agli Standells. Il tentativo però non riesce, perché il pubblico cui il disco è destinato in larga parte nutre verso Fisher se non un’indifferenza pigra, un odio spietato, avendo imborghesito il rock ‘n’ roll degli anni Sessanta fin troppo. Ecco dunque che anni dopo, quando si tratterà di ristampare questo disco che giaceva tra gli invenduti, il nome di Fisher scomparirà e il titolo verrà cambiato in un non più originale ma di certo più mirato Rockin’ the Garage. Restando comunque fra gli invenduti.

Non perché sia un brutto disco. Ma, tirando le somme, un disco inutile. Questo si.

Perché nel 1994 prima e quindici anni dopo ancor di più, di cover version di Louie Louie, Strychnine, Pushin’ Too Hard, 96 Tears, Sometimes Good Guys Don’t Wear White, Kicks e I’m a Man ne abbiamo pieni non solo gli scaffali. E alla fine anche se di Midnight to Six Man non ne abbiamo mai abbastanza, questa nuova versione del ’93 non è per nulla superiore alla prima, arruffata versione del ’66.

“A Whiter Shade of Dirty Water” paga pegno di questo, un po’ come sarà per Chesterfield Kings di Where the Action Is!, ma non è affatto un brutto disco. Sintomatico di un ritorno nostalgico e pre-senile alla musica della loro gioventù che verrà certificato con Rage Before Beauty, Phil May e Dick Taylor si apprestano a tornare al vecchio, grezzo sound di trent’anni prima. E quando c’è da agitare le zazzere, io non posso non essere dalla loro parte.  

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SONIC YOUTH – Experimental Jet Set, Trash and No Star (DGC)

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Nell’aprile del 1994 arriva il singolo che anticipa il nuovo album dei Sonic Youth. Annunciato da un riff che è preso pari pari da It’s a Good Thing dei That Petrol Emotion, suona un po’ irrisolto, come del resto tutto l’album che il mese dopo è chiamato a contenerla. L’album sacrifica la densità rumorosa del disco precedente preferendo le cuciture sartoriali del cosiddetto lo-fi rock (registrando ad esempio l’intero lavoro sulle bobine di Sister, il cui fruscio intervalla le singole canzoni) rendendolo zoppicante sin dalla noiosissima introduzione di Winner’s Blues. Non si tratta però di un rifiuto morale ai vincoli imposti probabilmente dalla casa discografica che vuole finalmente sfruttare le potenzialità della band, visto che lungo il viaggio ci si schianta spesso su piccoli iceberg di roccia alternative-rock (l’omaggio ai “bei tempi” della SST Screaming Skull, Self-Obsessed and Sexxee, Waist).

Le condizioni per venire meno a quelle aspettative mainstream che li porteranno ad essere la band guida del Lollapalooza l’anno successivo dovranno necessariamente passare per la scelta della completa autonomia discografica, avviando una etichetta autonoma che viaggerà parallelamente a quella su major e alla quale verranno affidate le uscite più sperimentali e svincolate dallo status professionale raggiunto. Qui ci si limita a fissare su qualche intelaiatura empirica una sorta di nostalgia umorale di se stessi che si risolve in un prevedibile incrocio tra gli Uzeda e Patti Smith, alternando chiasso frastornante (la sbronza no-wave di Starfield Road) e sbalzi di umore, come succede nella Bone piazzata a metà del guado.

Ma Polly Jean Harvey aveva fatto meglio con il suo Rid of Me, senza deludere nessuno.  

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

EPIC SOUNDTRACKS – ‘Sleeping Star’ (Troubadour)

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In effetti è proprio una stella dormiente, quella che Epic Soundtracks esibisce sul secondo album, prediligendo il canovaccio un po’ abusato della ballata, soprattutto quella un po’ melliflua fatta di pianoforti e, tanto per esagerare con la glassa, esposta a qualche acquazzone di violini o alle luci della ribalta, come si trattasse di una big band da esporre allo scroscio degli applausi.  

‘Sleeping Star’ è un disco a passo di lumaca, come se Kevin Paul Godfrey avesse davanti tutto il tempo del mondo. E invece…

Un lavoro malinconico, che le versioni aggiuntive di questa ristampa accentuano con delle “riprese” del musicista in piena solitudine. L’unica audacia che il musicista inglese si concede è quella di qualche coda luminosa come quella delle comete, che solcando il cielo ci ricordano com’erano belle quando stavano in cielo, mentre invece stanno andando a morire. O, come dice Epic, a dormire.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE WOGGLES – The Zontar Sessions (Estrus)

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“Quasi” tutti i primi Woggles, quelli che per la Zontar registrano e incidono tre sette pollici destinati da subito ad imporli, proprio ad inizio decennio, come una delle migliori band neo-garage degli anni Novanta. La Estrus, che se li è appena messi in casa, riallinea quelle registrazioni (escludendo volutamente dalla scaletta la Elvis Cadillac che aveva dato il via a tutto, rendendo di fatto “zoppa” la raccolta) aggiungendoci le registrazioni che, tra il maggio del ’91 e il gennaio successivo, daranno il via alla produzione Estrus.

I Woggles hanno ancora i denti da latte ma non solo lupi di primissimo pelo, hanno già un’età mediamente alta per una garage-band, e qualcuno ha già una lunga gavetta come musicista nelle leggende georgiane Guadalcanal Diary. Il piglio però è quello giusto e così pezzi come Carnivore, I Got Your Number, Graveyard Woman, See the Cheetah (at the Hangout) superano in potenza anche l’arsenale di cover che la band nasconde nella manica (He’s Waitin’ dei Sonics, I’m Gonna Make You Mine degli Shadows of Knight, No Reason to Complain degli Alarm Clocks, Hi Hi Pretty Girl dei Creeps e la meno riuscita del lotto, Come On degli Atlantics). Sono i primi passi di una band che, decimata nell’organico, traghetterà il garage-punk ben oltre la soglia del nuovo secolo e a cui non resta che inchinarsi.  

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE FUZZTONES – Lysergic Ejaculations – Live in Europe 1991 (Music Maniac)

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Fra le varie “campagne” europee dei Fuzztones quella del 1991 fu una delle più fortunate in termini di presenze e anche più ricche dal punto di vista musicale, con una scaletta vastissima e variegata. Dalla data di Tubingen verrà estrapolata quella di Lysergic Ejaculations, il secondo “live in Europe” della loro carriera, pubblicato nel 1994 con una copertina di cattivissimo gusto opera del solito Protrudi per la Music Maniac. Il repertorio, introdotto da una linea gloomy usata come incipit per In Heat, pesca soprattutto dai due album appena precedenti, quelli della seconda line-up, con qualche tuffo inevitabile nel glorioso passato (Epitaph for a Head, Love at Psychedelic Velocity, She’s Wicked anche qui con qualche guado di noia dovuto alla nuova tendenza di Rudi Protrudi di drammatizzare alla stregua di Jim Morrison).

Fra le tante cover dell’album (Try It, Rari, Shapes of Things to Come, 99th Floor e così via) l’unica su cui il gruppo, ormai veterano, inciampa è la rendition di Boss Hoss, chiaramente fuori dalle sue corde, soprattutto quasi a fine concerto, quando il testosterone è quasi a fondoscala e i Sonics invece ne pretendono sempre tanto. Noi pure. Più che lo sperma. Ditelo a zio Rudi.    

                                                                               Franco “Lys” Dimauro