JACK WHITE – Boarding House Reach (XL Recordings)  

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Dopo aver lasciato la propria impronta nel garage rock degli anni Novanta, ecco il primo disco di The Artist Formerly Known as Jack White, l’album con cui il musicista di Detroit si scrolla di dosso se stesso. Un disco controverso, androgino, ambiguo e che afferma la propria identità nello stesso istante in cui la annienta, esattamente come era successo con Prince. Boarding House Reach è lavoro che chiede coraggio a chi lo ascolta, con le sue volute funk, i suoi cori gospel e i suoi riff frantumati costretti a riassemblarsi come dentro un disco dei Funkadelic. Il risultato finale, oltre che a quello del folletto di Minneapolis, ha molto a che fare con gli esperimenti di cut-up di Beck, al cui pubblico canzoni come Corporation, Hypermisophoniac o Ice Station Zebra piaceranno certo più di quanto possa piacere ai vecchi fan di White. Che qui dentro ci sia del genio ce lo dice il passato di Jack White, ce lo dicono le sue capacità, ce lo dice il rispetto reverenziale che il suo passaggio sui canali musicali suscita anche al di là delle critiche. Non ce lo dice il disco, che è ancora una massa opaca di idee che cozzano tra George Clinton e Aloe Blacc e che non sempre riesce ad espellere i calcoli che hanno sedimentato nella colecisti di White negli ultimi due o tre anni.  

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

THE BELLRAYS – Punk Funk Rock Soul Vol. 2 (U&Media)  

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Eccola, l’attesa portata dopo l’assaggino estivo dell’EP Punk Funk Rock Soul.

Ormai da anni i BellRays hanno fatto il “grande salto” che ha portato il loro nome dai magazine votati al rock ‘n’ roll più zozzo a recensioni entusiaste su un giornale per panzuti impiegati di banca col pallino del rock come Classic Rock sacrificando il loro lato più lurido per un soul/rock un po’ di maniera, rimanendo ciò nonostante un gruppo da salvare. Certo, col passare degli anni sono un po’ diventati i Blues Brothers di se stessi, con buona pace per i treni voodoo e i blues per Godzilla che infestavano i primi dischi, anche se il titolo sembra voler celebrare quella mistura già celebrata quasi venti anni fa sul bellissimo split con gli Streetwalkin’ Cheetahs.

Tanto per sgombrare subito il campo da eventuali dubbi su un ritorno alle radici, diciamo subito che del punk che apre la lista scelta come titolo non c’è neppure l’odore. Come del resto non si respira nessun puzzo funk. Si tratta dunque essenzialmente di soul music suonata con la classica, asciutta strumentazione rock “di base”: basso-chitarra-batteria e, ovviamente, la voce della Kekaula ormai così “avanzata” rispetto agli strumenti che sembra di vedersela girare per casa. E magari fosse. D’altro canto tutta l’intera infrastruttura è ormai così ben calibrata che i BellRays potrebbero benissimo passare in prima serata e far battere le manine a tre generazioni di familiari coi culi affiancati sul divano di casa.

Però i BellRays non oltrepassano mai la soglia del cattivo gusto e, lacca o meno, non si riesce a voler loro del male, anche perché alla fine qualche bel brano lo azzeccano sempre (in questo caso Bad Reaction, Man Enough, l’insolita Now ma anche lo spudorato soul-pop da classifica di Brand New Day che, se fossero state affidate alle mani di Rob Younger, Tim Kerr o Mike Mariconda sentireste scoppiarvi le micce nello sfintere) e alla fin fine familiari e vicini di casa non vengono a tirarti giù la porta di casa quando alzi il volume per sentirlo da sotto la doccia. Pensando alla carne di Lisa K, magari.

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

KING KHAN – Murderburgers (Khannibalism)

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Non ci sono gli Shrines a coprire le nudità del Re Khan su questo disco del 2014 che torna adesso sul mercato in veste ufficiale.

A porgergli il mantello e dividere con lui gli hamburger sono Greg Ashley e Oscar Michel, ovvero due/quarti di quelli che furono i Gris Gris. E il risultato, ahimè, si sente. L’energia positiva e travolgente dei dischi con gli Shrines è quasi del tutto dissipata, soffocata da una rilassatezza che non concede al ritmo che pochissimi Joule di energia (il tiro garage scriteriato di Teeth Are Shite, il suono dei Saints replicato quasi alla perfezione su Born in 77).

Murderburgers non ha insomma la stessa spettacolarità dei dischi con gli Shrines, preferendo adagiarsi su un folk rock che tenta addirittura l’assalto alle fortezze di Dylan (It’s Just Begun) e di Beck (Too Hard Too Fast), scivolando in realtà molto prima di aver raggiunto la salda certezza di una balaustra. Anche la carica esplosiva di Born to Die soccombe alla psichedelia sgraziata di Greg Ashley.

Un diversivo che concediamo con piacere a King Khan, per tutto quello che ci ha regalato in quindici anni di dischi.

Ma adesso ridateci gli Shrines, per favore.

E qualcuno dica al Re che è nudo.

                                                                                     Franco “Lys” Dimauro

THE EXCITEMENTS – Breaking the Rule (Penniman)  

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Ad intervalli più o meno regolari gli spagnoli Excitements ci porgono l’invito a partecipare al loro soul party. E noi accettiamo, stuzzicati dal fatto che la compagnia e le canzoni che allieteranno la serata, saranno sempre all’altezza delle aspettative.

Breaking the Rule, terzo disco della formazione, non tradisce le attese. Come per il disco precedente, il repertorio è ormai quasi del tutto autoctono anche se,  un po’ come succede per i dischi della compianta Sharon Jones, lo scarto dai classicissimi della soul music è talmente sottile che ogni singolo pezzo può essere scambiato per un inedito di Ike & Tina Turner o delle sorelle Franklin.

R ‘n B scattante come il cammello delle Ikettes (Everything Is Better Since You’ve Gone, Four Loves, Did I Let You Down) e soul potenti trascinati dai fiati come fossimo dentro i dischi di Otis Redding o Sam & Dave (The Mojo Train, Wild Dog, Take It Back, Hold On Together). 

Stile e radici. E due gambe che sembrano scolpite nell’ebano per ricordarci che i peccati della carne ci regalano il paradiso in terra, negandoci l’altro.   

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

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THE BASEMENT BROTHERS feat. THE KITCHENETTES – Speak Up! (CopaseDisques)  

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Ancora Svizzera.

Lontani dalla dottrina fangosa e malfamata della Voodoo Rhythm, però. Anzi, qui siamo al cospetto di una band dai riferimenti estetici e musicali fin troppo curati, forse anche pedissequi. Il genere di riferimento è la soul music, riadattata con una pulizia e una cura (l’equipaggiamento usato è quello analogico dei Konk Studios di Londra, aperti da Ray Davies nel ‘73 e celebrati dai Kooks sul nuovo album, NdLYS) da manuale deontologico. Il disco suona bene, anzi benone, ma manca quella profondità che le voci nivee delle Kitchenettes non potranno mai elargire. Neanche a brani nati già vincenti come Tearing Me Apart, In Love with a Man o Porcelain Faces.

Un esercizio di stile. Un grande esercizio di stile che quando allenta il tiro (Slowly Fading Away) mostra però la sua cagionevolezza e orfano di quella peccaminosità senza la quale la soul-music diventa roba per donne chic.

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

RUFUS PARTY – With Us (Bluebout)

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Il nuovo disco dei Rufus Party comincia benissimo: Panic in Gairo è un pezzone enorme: puro groove. Basso e voce che si inseguono e fanno sesso prima che al coito si uniscano altre persone, uomini e donne, a fare un’orgia soul.

E pare subito di spiccare il volo.

Poi però, a mano a mano che il viaggio prosegue, sembra che il velivolo perda prima la traiettoria, poi quota. Perché la band emiliana sembra voler andare dappertutto senza in realtà riuscire a trovare un aeroporto che conceda loro l’atterraggio. Blues, jazz-rock, soul, funky, new-wave, rock classico e rock moderno.

Scorte che, alla lunga, diventano vere e proprie zavorre che l’appetito dell’equipaggio non riesce a smaltire. I cinque della festa di Rufus (Thomas, presumo NdLYS) sono musicisti dotati, più tecnica che istinto e la produzione del disco asseconda questo loro portamento un po’ troppo elegante risultando artificiosa e ricercata anche quando (Get Out of My Way) la band sembra voler buttare in aria le carte con tutto il tavolo da gioco. Poteva essere una festa, invece è stata una serata come tante.

 

                                                                           Franco “Lys” Dimauro

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THE BLUE VAN – Man Up (Iceberg)

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Tempi di vacche magre in ambito rock, inutile nasconderlo. Il 2008 ha regalato dischi avvilenti. Il nuovo Blue Van arriva finalmente a darci qualche good-vibe, seppure nel segno di un rock ‘n’ roll da Piccolo Chimico. Fatto sta che il quartetto danese con questo Man Up può tranquillamente prendere a calci in culo decine di bands coi sederini lucidati dalla critica. Un suono moderno e classico allo stesso tempo come sempre, solo che qui tutto esplode con una potenza da far tremare le pareti e un calore da autentica soul-band.

Una band soul come poteva concepirla Shel Talmy in epoca beat. Furiosa e bianca. E con un appeal radio-oriented da lasciare attoniti e irritati i “puristi” del suono vintage. Costruito per parcheggiare col minimo danno (qualche striscio sulla carrozzeria e qualche ammaccatura ai paraurti giusto per dare un’aria di “vissuto” NdLYS) il furgoncino blu in zona chart. Scontati, ma ti tengono in ostaggio per un’ora.

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

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THE LOST CRUSADERS – Have You Heard About the World? (Everlasting)

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Ma come cazzo è possibile.

Qua dentro ci sono Mike Chandler dei Raunch Hands, gli Heavy Trash, Keith Streng e Steve Greenfield dei Fleshtones, Laura Cantrell, Brian McBride degli Electric Shadows, Hans Chew, Buffi Agüero dei Tiger! Tiger!, Johnny Vignault dei Woggles e nessuno ne parla?

Miracoli del giornalismo musicale di quest’Italiucola ormai ridotto a pura propaganda per il distributore di turno, in cambio di qualche pagina di pubblicità e una manciata di promo.

Così va il mondo.

A proposito, avete sentito riguardo il mondo?

Se non ne avete sentito abbastanza, è ora di ravvedervi. Perché Michael Chandler è diventato Reverendo e vi condurrà verso la luce col suo gospel sporcato dal garage e dal rock ‘n’ roll. Non sono più i Raunch Hands e non sono ancora i Mercy Seat ma sono sulla perfetta via di mezzo. Un biglietto di sola andata per il paradiso, a bordo di una Roush Cobra che sfreccia da Madrid (dove nel frattempo Mike si è trasferito, NdLYS) al New Jersey, guidata dall’organo di Jerome Jackson, organista della Kelly Temple Church of God in Christ di Harlem.

I dodici sermoni di Have You Heard About the World? sono l’alternativa a tanto rock che puzza di cadavere e che sta atterrendo il mondo.

Mandate a cagare gli xx e fatevi due salti di autentica gioia.

 

                                                                                    Franco “Lys” Dimauro

ALABAMA SHAKES – Boys & Girls (ATO)

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Aretha Franklin può dormire sonni tranquilli. E la Winehouse (i cui fan potrebbero facilmente andare in eiaculazione precoce per le moine di Rise to the Sun, NdLYS) può continuare tranquillamente a scolarsi il suo Gilbey‘s Gin con la Joplin.

Brittany Howard non è quel che si dice. E non credo abbia la pretesa di esserlo.

Questo per mettere un po’ a tacere le dicerie e smorzare le aspettative che finiscono più per nuocere che per giovare all’album di debutto degli Alabama Shakes, gli autori di tormento(ni) come Hold On e Hang Loose che impazzano su tutte le radio. Una band onestissima che ha il dono prezioso di non strafare, con un suono misurato e vintage che a me piace tanto. Quello stesso suono che su singolo ha sempre funzionato parecchio bene ma che non regge sull’asfalto lungo finendo, lungo la corsa di Boys & Girls, per obbligare alla sosta in autogrill. O in motel, se preferite.

Un “fenomeno” non proprio fenomenale insomma, ma che ha messo su un album carino, ammuffito quel tanto che basta per produrre l’autosuggestione di star ascoltando il disco giusto. Archeologico e retrò come le produzioni della Daptone insomma ma anche un po’ annoiato e sordinato come certo indie rock che spopola in questo decennio catatonico (e non solo musicalmente parlando). Cosa che probabilmente ha influito, tanto quanto le attenzioni di Jack White, Adele e Russell Crowe e il battage promozionale, sulla popolarità del gruppo americano.

Un po’ come accadde per Frank di Amy Winehouse, Boys & Girls non scioglie tutte le riserve e non fa azzardare previsioni: potrebbero diventare una band di successo o tornare nell’anonimato nel giro di un paio di anni.

Io auguro loro la prima. Che di sentire solo la Nannini in radio ne ho piene non solo le orecchie.   

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro   

 

THE EXCITEMENTS – The Excitements (Penniman)

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Come avere in casa un juke box caricato coi singoli della Stax e della Motown.

Solo che gli Excitements non vengono dall’America nera ma dalla bianca Spagna, tirati fuori dal sottobosco di Barcellona da Mike Mariconda.

Bianchi, eleganti, europei.

Tranne che per lei: Koko Jean Davis, africana di Mozambico, voce e sensualità tutta nera. Pelle d’ebano e carnalità soul. Come Etta James, Sharon Jones o Lisa Kekaula.

Dietro di lei la band suona covers di Nathaniel Mayer, Rufus Thomas, Jimmy Dee, Hidle Brown Barnum, Falcons, Mr. Wiggles, Little Richard, Barbara Stephens col supporto del barrito di un sax e del picchiettio di un piano honky tonk, mescolando eleganza e vigore, come se fuori dalla sala da ballo ci fossero ancora parcheggiate le cadillac decapottabili cariche di collegiali e lambrette dalle finiture cromate.

Qualcuno li obblighi a continuare lo spettacolo, che tanto qui fuori non è rimasto più nessuno.

                                                   Franco “Lys” Dimauro