LOOP – Fade Out (Chapter 22)

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Otto paurose nuove installazioni sonore per i Loop, nel monumentale Fade Out del 1988. L’elettricità invadente del terzetto procede per frustate o per bordoni invadenti, saturando lo spettro audio e bruciando tutte le riserve di ossigeno fino all’apoteosi cosmic-rock di Pulse, uno stordente duello fra Hawkwind e gli Stooges ad altezze e volumi insostenibili. Bellissimo anche il duello di chitarre che si dipana lungo This Is Where You End, catarsi psichedelica di proporzioni immani che fa il paio con Torched e le sue budella elettriche vomitate fuori da un cesareo al ventre prodotto da chitarre affilate come bisturi.

Canzoni come Fever Knife e Fade Out scelgono un passo lento e sfiancante, soffocandoci nella polvere rossa come se venissimo inghiottiti dalle sabbie mobili di Marte, mentre A Vision Stain è attivata da un rigurgito wah-wah straniante, un effetto di sfasamento che sottolinea l’avanzare implacabile e strisciante dell’altra chitarra che, come una tenia, avanza implacabile lungo le nostre viscere, conducendosi all’apoteosi di Got to Get It Over, un riff torbido ripetuto all’infinito prima di venire polverizzato nell’aria, scomparendo nel nulla atomico, come una stella morente che irradia i suoi ultimi raggi di luce abbagliante.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE BIG BEATS – Gotta Get Loose! (Soundflat)

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Terzo album per la formazione di Vancouver artefice di un “revival del revival” neo-garage quasi esclusivamente imperniato sull’organo combo di Derek MacDonald cui fanno da contorno un’ottima chitarra e, purtroppo non quanto dovrebbe, la bella armonica a bocca di Cam Alexander. Quando tutti e tre gli strumenti sono allineati, come nella bella Put Me Down, nella fulminante Watch Your Step o nella cover di Smoke Rings dei Gants, i Big Beats danno il meglio di se ma nel suo complesso Gotta Get Loose! è un disco di ottimo e coeso sixties-punk, di quelli che ogni tanto, ma sempre più di rado, arrivano ancora ad allietarci le giornate con la giusta dose di sporcizia beat. Col caldo che prova ad ammazzarci là fuori, i Big Beats ci danno una mezz’ora di refrigerio e ci dimostrano che il garage-punk avrà la sua rivincita, in questo mondo o nell’altro.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

MUDHONEY – Every Good Boy Deserves Fudge.. (Sub Pop)

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Gli elementi tipici dei Mudhoney ci sono tutti, ma Every Good Boy Deserves Fudge.. sembra volersi scrollare di dosso la polvere che loro stessi avevano sollevato. Ci sono degli elementi chiari della direzione verso cui Steve Turner e Mark Arm intendono muoversi: Farfisa e armonica a bocca vengono innestati dentro un suono che, in quanto a crudezza, ha già profonde radici garage che sfoceranno di lì a breve nel progetto Monkeywrench. Il protagonista principale, eletto già da tempo a loro marchio di fabbrica, rimane tuttavia il fuzz che torna prepotente a “strappare” le casse e a prendersi la scena con il motorik grunge di Let It Slide subito dopo il fuorviante intro prog di Generation Genocide e che si esibisce in una digressione di Love at Psychedelic Velocity sulla strumentale Fuzz Gun ’91.

Anche lo sconfinamento in territorio “ballad” con Broken Hands rappresenta una novità indicativa del tentativo dei Mudhoney di “andare oltre i Mudhoney”. Siamo qui in pieno territorio Neil Young, con le tipiche increspature elettriche del cantautore canadese che erano state fondamentali per il Paisley-rock.

Sono i Mudhoney che potrebbero prendersi tutto, e anche di più. E che invece si limiteranno a disseminare sporcizia sulle strade di Seattle fino alla fine dei giorni.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SPACEMEN 3 – The Perfect Prescription (Glass)

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Il suono degli Spacemen 3 si sgombra gradatamente del frastuono degli esordi simulando quel senso di beatitudine orgasmica ed oppiacea data da una dose di eroina ben tagliata. Un’estasi drogata di 45 minuti in cui gli strumenti ritmici sono banditi per la maggior parte della durata mentre sono le chitarre, l’organo Farfisa, l’uso della voce sussurrata e il violino a simulare un’espansione sensoriale e temporale, ad instaurare una trance indotta e mediata da una psichedelia di chiara ascendenza velvettiana.

Se dunque l’apertura affidata al raga elettrico di Take Me to the Other Side sembra una cellula sonora sganciatasi dal corpo fluorescente di Sound of Confusion, il resto di The Perfect Prescription mostra di volersi muovere in una galassia meno compressa, in una sorta di mondo paradisiaco ed estatico che è già sineddoche di una spiritualità sempre più incalzante sotto la pelle eburnea di Jason Pierce. Da questa prospettiva, il secondo album degli Spacemen 3 è un lavoro associabile ad un certo misticismo che lavora sia sul concetto risonanza acustica che sulla reiterazione.

Lo shoegaze non è ancora nato, ed è già asceso al cielo.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

VASCO BRONDI – Un segno di vita (Carosello)

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Sontuosamente accompagnato da un “piccolo manuale di pop impopolare”, eccoci fra le mani il nuovo album di Vasco Brondi, il secondo dacché ha spento l’impianto di illuminazione della centrale elettrica.

Un disco che a me ha messo tristezza. Non che Vasco sia mai stato uno che sprigionasse chissà quali manifestazioni di giubilo con la sua scrittura ritorta e avvolta da una malinconia post-industriale e pre-atomica, ma Un segno di vita è ancora più fortemente adunco e più logorante nella sua spoglia ricerca di una “qualche forma di vita”, peraltro luminosa, nel suo racconto di una forma concreta di riscatto che ha per protagonista Sara ma che riguarda in qualche modo tutti noi.

Le “spiagge deturpate” restano come sfondo, eppure il cantautore di Verona sembra ormai aver avviato un’opera di bonifica disseppellendo le conchiglie d’amore che non sono ancora state corrose del tutto dall’ammoniaca. Un gesto di amore e di tenerezza moltiplicato per dieci, anche se in più di un passaggio si avverte un senso di inadeguatezza che si riflette anche su molti pezzi del disco, tanto che la nostalgia delle notti soniche raccontate su Va’ dove ti esplode il cuore diventa malinconia vera, assenza tangibile.

È il Brondi che si lascia morire come un gabbiano ferito. E che ci viene a morire in mano.  

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

AFTERHOURS – Ballate per piccole iene (Mescal)

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Con Greg Dulli, Hugo Race e John Parish presenti a diverso titolo e una edizione integrale in lingua inglese, Ballate per piccole iene è il più internazionale dei dischi degli Afterhours e anche il più velenoso. Il nuovo disco della band milanese è il canale di scolo del precedente. Tutto lo sporco di quel lavoro scende adesso denso come sangue coagulato e copre le nuove canzoni di una glassa al veleno. La sfiducia e l’inganno sono i temi dominanti del lavoro, i nuovi peccati capitali da aggiungere alla rassegnazione e al disinganno che teneva prigionieri i protagonisti di Quello che non c’è. La musica si adatta a questa amara consapevolezza propria dell’età adulta e si fa strisciante come si fece strisciante il primo demone biblico,  regalando il migliore disco di Agnelli e soci. Dannato senza subire l’afflizione tormentata del disco precedente, polveroso, scuro, perverso. Un disco che resta appiccicato al palato come un’arida chewingum senza più xantano, che ti costringe a tirar fuori le unghie come un gatto di strada pur di staccarlo dalla volta palatina.

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

THE KING KHAN & BBQ SHOW – What’s for Dinner? (In the Red)

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Dopo il primo pasto del 2005 la cena viene servita l’anno successivo. Per l’occasione King Khan si è vestito da drag-queen e BBQ, ovviamente, da sultano. Sono gli avanzi del pranzo, che era già un pasto di avanzi. Panni soul sciolti nella varichina, stracci rock & roll logori e consunti. Qualche lentaccio da struscio (ricordate i Creeps di Darlin’? Ecco, quel genere di cose lì) e tanto rock and roll sornione e beffardo che cerca di sconfinare nel punk da garage in almeno un paio di occasioni. Nel country da galera in almeno un altro paio.

L’unica regola è non avere regole. O perlomeno attenersi a quelle sommarie dettate dall’amore per le frattaglie del rock, gli avanzi dei pasti ricchi con cui le rockstar sono diventate obese o cocainomani.

Uno spettacolo di viscere e liquidi corporali. Ecco cosa c’è per cena.   

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

 

SLINT – Spiderland (Touch and Go)

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Muscoli atrofizzati e un filo di voce, un bisbiglio.

Come se il mondo intero stesse per andare a letto, o si stesse per svegliare.

Senza fretta.

Gli Slint firmano il loro capolavoro e poi sprofondano nell’acqua, dopo un ultimo sorriso. Il suono di Spiderland è come sospeso su una sottilissima tela sonora che trascende ogni concetto di riff e di progressione armonica per diventare uno stato d’animo. Una presenza che può concedersi il lusso di scomparire del tutto, diventare evanescente, riaffiorare come certe malinconie che ti sorprendono proprio quando provavi a schiacciarle all’angolo, morire davanti ai tuoi occhi come nei nove minuti drammatici di Washer, forse la più grande preghiera d’addio scritta negli ultimi cinquant’anni, di sicuro uno dei più grandi capolavori della musica indie degli anni Novanta.

Siamo già dentro al post-rock, sebbene verrà codificato come genere solo tre anni dopo. Spiderland ne rappresenta la deflorazione, la nascita, l’atto fondativo, anche se siamo già alla sua apoteosi.

Un disco che pretende volumi altissimi come i classici del rock ma stavolta per poterne afferrare i silenzi e le pause invece che la stordente fisicità dei riff. Per potersi meravigliare dell’ordinario, come a volte ci si meraviglia di un abbraccio, talaltra delle lacrime.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

SWELL – Too Many Days Without Thinking (Beggars Banquet)

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Essere i dEUS prima dei dEUS.

Senza avere il successo dei dEUS.

Questo il destino degli Swell di San Francisco, attivi dall’inizio del decennio e giunti, incorrotti, al quarto album.

Too Many Days Without Thinking è, se volete, il riassunto della prima metà degli anni Novanta: i Pavement, i Dinosaur Jr, Beck, i Red House Painters, gli American Music Club, i dEUS, i Built to Spill, i Buffalo Tom, i Ween, i Camper Van Beethoven ma è soprattutto l’ennesimo capolavoro di una band che non ha mai ottenuto quello che avrebbe meritato, nonostante il sostegno di etichette come la Def American prima e la Beggars Banquet adesso, probabilmente dovuta alla scelta di apparire oltremodo dimessa o di non apparire affatto. Acquistare un loro disco è dunque, in primis un atto di fiducia. O un azzardo. In ogni caso, senza mai portarsi a casa una delusione ma piuttosto canzoni dalla pelle di daino come (I Know) The Trip, Throw the Wine, At Lennie’s, What I Always Wanted, Going Up (to Portland) con cui potete asciugare la vostra carrozzeria o coprirvici quando arriverà il Generale Inverno.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

STEWED – Ahead of Confusion (Twist)

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Per il secondo album il suono degli Stewed si fa ancora più compresso pur senza perdere le sue squame stoogesiane ma “corazzandole” in una sorta di tuta proto-stoner che è in realtà una maglia di ferro heavy-blues che solo nell’ultima That Ain’t No Crime il terzetto inglese sceglie di sfilarsi di dosso per mostrare il proprio tatuaggio degli Yardbirds. Dall’iniziale I Want In fino ad Howlin’ & Wantin’ è invece tutto un viaggio dentro mulinelli di lava urticante, un garage punk morlocksiano flagellante e immondo, con rivoli come Said Come On e Freedom Express capaci di trascinarti giù fino ai piedi del principe Beelzebub con immane ferocia animale.

Se avete la pelle delicata e sensibile agli acidi, state lontani da qua.   

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro