DINOSAUR JR. – Farm (Jagjaguwar)

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Sotto il letto, là dove voi tenete il vaso da notte, J Mascis tiene un pedale distorsore.

Non appena sveglio, si stropiccia un po’ gli occhi e lo pigia.

Pochi minuti e la colazione è pronta. Squisita come sempre. Sciroppo d’acero, cannella, uva sultanina e miele distribuiti su undici pancakes lasciate un po’ crude per poterci affondare anche le gengive se nel frattempo, da quando i Dinosaur Jr. sono arrivati come un uragano ad oggi, avete perso tutti i denti o buona parte di essi. Odore di cose buone, di cose familiari soprattutto, nella fattoria Mascis.

Farm arriva a ben venticinque anni dalla comparsa sulla Terra di quell’animale preistorico che cambiò le sorti di buona parte dell’alternative rock americano e ad una dozzina da quell’apparente estinzione che in realtà si rivelò essere solo un lungo letargo da cui la band si è riavuta con un ruggito da leoni come Beyond. Il nuovo album non tradisce le aspettative scatenate proprio da quella reunion e rincara la dose, con pezzi come I Want You to Know, Plans, There’s No Here, Pieces, Over It, l’assolo infinito di I Don’t Wanna Go There già pronti ad affiancare i grandi classici del gruppo, con il loro suono epico e grondante di sottile malumore, di annoiata beatitudine. Un assordante scudo contro le inimicizie e le delusioni.

Golia va incontro al pastorello Davide.

Si china.

Lo prende tra le mani.

E gli mostra lo sterminato campo del suo dolore.            

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE SOUND – Thunder Up (Play It Again Sam)

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Nonostante tutto, l’ottimismo sembrava alla fine arrivato. Era spuntato dal nulla, come un iceberg, e il capitano Borland aveva detto al timoniere di spingere la nave in quella direzione. E che l’orchestra suonasse una qualche musica allegra. Qualcosa di romantico come Hand of Love o di trionfale come Iron Years, con gli ottoni tutti lustrati come quelli che sporgevano dalle pareti e dal bancone in legno della sala da bar del ponte 8.

E così quello che a prima vista poteva dare l’illusione di un salto suicida nel vuoto era in realtà era solo la mossa azzardata di un trapezista, proprio come nella copertina di Thunder Up, il disco che i Sound avevano registrato a casa ma che avevano dovuto stampare in Belgio visto che anche quei pochi che se li filavano in patria adesso erano stati distratti da altro.

L’ultimo salto, comunque sia. Che era un azzardo si, in quel disperato tentativo di afferrare la barra che avrebbe potuto spingere il corpo esausto dei Sound fra le stelle. E avrebbe potuto farlo per davvero, almeno per la prima parte del disco, quella con Acceleration Group, Barria Alta, Kinetic e gli altri pezzi che vi ho detto. Poi, nella seconda, i Sound sembrano voler scientemente precipitare nel vuoto. Se avvicini l’orecchio alle casse, senti quel corpo cavo che piomba giù da un’altezza smisurata, come risucchiata dalla sua stessa implosione.

Non ce l’avevano fatta, i Sound. Non si sarebbero rialzati mai più da quella caduta. Tutto quel che avverrà da lì in avanti, non si svolgerà mai più in verticale.

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

BLUR – Think Tank (Parlophone)

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La scommessa è supplire in maniera (in)credibile alla mancanza di Graham Coxon. Cercando aiuto esterno (Fatboy Slim in primis) e facendo virtù delle poche e grezze capacità interne (con Damon Albarn costretto, quando serve, a dar fondo al suo rudimentale approccio alla chitarra, come su Crazy Beat), cercando ispirazione vicino (Radiohead) e lontano (Marrakech) da casa, fra gli scaffali impolverati dei propri vinili (quelli dei Clash) e i tanti file che vengono giù quando il modem di casa Albarn scarica da Napster mentre lui è impegnato ad imparare l’arte di fare il papà: musica etnica nella sua accezione più pura e in quella più contaminata, urban, dance, hip-hop.

Il risultato è un disco a forma di imbuto, con una parte conica notevolmente sproporzionata rispetto al gambo inferiore.

L’assemblaggio conclusivo, ovvero la sequenza del film dove il “mostro” creato in laboratorio prende vita, è un esperimento fallito: Think Tank si regge a malapena e sembra quasi una versione impacciata dei Gorillaz, la band-manga messa su da Damon Albarn e Jamie Hewlett qualche anno prima. Una giungla dove si stenta a riconoscere le liane solidamente ancorate all’albero dalle semplici e fragili edere irlandesi, rischiando di farci cadere giù come ingenui scimmioni.    

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

GIORGIO GABER – Anni affollati (Carosello)

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Gli anni affollati sono, dice candidamente Gaber, “gli ultimi dieci anni”.

Dunque sono gli anni Settanta nella loro interezza che Gaber si fa carico di sgomberare, alla soglia del decennio successivo, i cosiddetti anni del riflusso, della riscoperta dell’individualismo più esasperato e della fuga dall’interesse per il pubblico e per il sociale, del tramonto delle ideologie, dell’abbattimento definitivo di certi schieramenti politici, dell’affermazione individuale che ha soppiantato la lotta di classe che, di fatto, è stata abbandonata una volta compreso ed ammesso che l’arricchimento e il prestigio di casta fanno gola e comodità a tutti. È il trionfo dell’effimero, come sagacemente osserva Gaber su Il presente. Ed è un presente che ha di fatto sconfitto il passato, ne ha calpestato valori e sogni, annunciando un futuro altrettanto sgombro, se non si riusciranno ad avvistare nel deserto quelle piccole risacche di umanità che è auspicabile vi si annidino: “Davanti c’è soltanto uno spazio vuoto. L’importante è guardarlo attentamente, questo spazio vuoto, come se da un momento all’altro le cose potessero uscire dal silenzio e rivelarsi.

È la generazione dei reduci della vecchia controcultura e del “movimento” che ha ormai spento l’interruttore dell’attivismo quella cui Gaber si rivolge retoricamente, sul brano inizialmente previsto come chiusura dello spettacolo, chiedendole: “Ma come fate ora a vivere e a morire senza qualcosa da inseguire? Ma come fate a viver tra la gente con l’anima neutrale e indifferente?.

Anche l’amore di coppia, pur ridotto ad una ovvietà bigotta, ad un rituale borghese, è adesso tramontato e il piacere è del tutto individuale, solitario: Gaber sostituisce prontamente quei quadretti di vita familiare che erano stati Il signor G e l’amore, È sabato, L’impotenza, Prima dell’amore e Dopo l’amore con La masturbazione. E in effetti gli anni Ottanta vedranno implodere per la prima volta in Italia un gran numero di matrimoni e lo sdoganamento della pornografia sulle piccole emittenti televisive.

Stranamente, il collante della società diventa la condivisione del dolore. La restrizione coercitiva ed involontaria dalla società edonistica compie il miracolo della ricostruzione dei rapporti sociali, del dialogo, del confronto. Gaber lo racconta poeticamente e quasi commosso su Gildo, ambientata in una corsia d’ospedale.

Nonostante il fondale del nuovo decennio faccia incagliare la scialuppa rivoluzionaria degli anni Settanta, il disco è uno dei più ispirati della discografia di Gaber, con numeri eccellenti come Anni affollati, Pressione bassa, “1981”, L’illogica allegria e la lunghissima invettiva di Io se fossi Dio destinata ad uno tsunami di applausi scroscianti.

Gaber si prepara all’inaugurazione della Milano da bere, servendo veleno dentro i bicchieri da cocktail di quanti sono già seduti al bar, pronti per l’ora del lunghissimo aperitivo degli anni Ottanta.      

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

FELT – The Strange Idols Pattern and Other Short Stories (Cherry Red)

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Il bozzolo dei Felt raggiunge lo stadio della crisalide con The Strange Idols Pattern and Other Short Stories dischiudendosi definitivamente alla luce e raggiungendo il massimo stadio della sua prima vita, quella dove sono ancora le chitarre immaginifiche a stuzzicare le nuvole fino a farne sgorgare una rigenerante pioggia primaverile.

Le nuove canzoni dei Felt sembrano in qualche modo l’anello fra il minimalismo crepuscolare dei Durutti Column e i grandi squarci di luce dei Go-Betweens. Canzoni come Sunlight Bathed the Golden Glow, Vasco De Gama, Dismantled King Is Off the Throne, Roman Litter, Crystal Ball, Spanish House brillano di una luce fulgida e sono ammantate di bellezza jingle-jangle come un Babbo Natale hippie che è passato a chiederci un po’ di muschio per le sue renne.

E noi, che non sappiamo coltivarlo, gli concediamo gli avanzi del nostro pasto pur di non lasciarlo andar via e di stupirci ancora nel sentirci inaspettatamente bambini.  

 

                                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE BARON FOUR – Outlying (Chaputa!)

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Dieci anni esatti dal debutto e sette dall’ultimo Silvaticus: i Baron Four non sono esattamente degli stakanovisti però potete stare certi che quando decidono di pubblicare un album, si tratta sempre di un ottimo disco.

E infatti Outlying non delude le aspettative.

Il suono nel frattempo si è avvicinato, gradatamente, a quello dei mitici Mystreated abbandonando le irruenze teen-punk per abbandonarsi ad un grungey-folk sempre sostenuto da un garbato uso delle melodie, anche se paradossalmente è proprio il giro fuzzato di Never Feeling Blue a costituire il momento migliore di un album che non deluderà i tanti amanti del garage-rock di matrice britannica, quello che non è mai riuscito a scrollarsi la polvere magica del Merseybeat. Gli altri, si scrollino pure quel che gli resta da scrollarsi.    

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

TEENAGE HEAD – “Frantic City” (Attic)

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Dopo il bellissimo disco di debutto i Teenage Head proseguono verso una canonizzazione estetica che passa fondamentalmente attraverso una rilettura ortodossa del rock and roll di base: le riletture di Somethin’ Else, Wild One e Brand New Cadillac e pezzi autoctoni come Somethin’ on My Mind e Those Things to Do ne chiariscono gli intenti lasciando solo una piccola feritoia da cui il vecchio amore per il punk-rock newyorkese può ancora filtrare e prendere forma nei cinque minuti abbondanti di Infected.

Il pezzo più bello del lotto è però Total Love, piccolo gioiello power-pop che illumina la prima facciata del disco. Disgusteen è invece la traccia più ambiziosa, quella in cui la band canadese prova ad andare oltre il panorama rassicurante che ci hanno mostrato lungo tutto l’album e a mostrarci qualcosa di inedito, una sterzata inaspettata verso una sorta di “drama” musicale che non troverà purtroppo ulteriore sviluppo.    

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE HELLACOPTERS – Grande Rock (White Jazz)

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Al terzo album gli Hellacopters sono ormai un’istituzione dell’hard-rock europeo. Grande Rock resta fondamentalmente attaccato agli stessi modelli, pur spostando gradualmente lo sguardo verso un suono più stereotipato che tuttavia non riesce ad esplodere con la straripante virulenza nugentiana che pare voglia esprimere “in potenza” (la versione “riveduta e corretta” pubblicata venticinque anni dopo sarà, a confronto, davvero incendiaria, NdLYS) e che resta in qualche modo “imprigionata” fra i solchi. Il tiro del gruppo svedese rimane comunque formidabile, una doccia fredda di chitarre che si ricompatta creando un sostegno tenace, ruvido a linee vocali limitate spesso a poche strofe e sempre pensate per i grandi bagni di folla e l’adrenalina collettiva. Pezzi come The Electric Index Eel, Action de Grâce, The Devil Stole the Beat from the Lord, Move Right Out of Here, 5 Vs. 7 sono classici al primo ascolto, punture d’imenottero che arrossano la pelle, rock che non conosce le redini.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

PEARL JAM – Dark Matter (Monkeywrench)

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Discutibile, come sempre, già dalla copertina, Dark Matter ribadisce una sola, grande verità: i Pearl Jam hanno fatto solo tre album veramente belli, tutti nella prima metà degli anni Novanta. Tutto il resto, da trent’anni a questa parte, è un tentativo disperato di sopravvivere a sé stessi. Infilando di tanto in tanto un pezzo giusto ma mai un album “a tenuta stagna” come erano stati Ten, Vs. e Vitalogy.

Il risultato più clamoroso ed imprevedibile è stato però che, alla luce dei dischi successivi, in molti si sono sentiti di abbracciare la fertile fede del revisionismo (la stessa che ha avvelenato le sorti di band come Smashing Pumpkins, R.E.M., U2 e, se Cobain non si fosse sparato in bocca, avrebbe contagiato pure i Nirvana, potete starne certi, NdLYS) e rivalutare in negativo anche quelli, che invece erano e rimangono dei dischi di grande valore e con molte cose da dire. Da No Code in poi invece è come se le luci si fossero spente, proprio mentre si accendevano i riflettori delle grandi arene.

Dei Pearl Jam è rimasto poco più che un guscio vuoto, un barattolo che ogni tanto risuona come quello del brano di Gianni Meccia.

Sono, in fin dei conti, la cover band dei Pearl Jam.

Canzoni che sono rimasticature infinite di quanto già scritto, fatto, detto e suonato da decenni.

Roba da campionario.

Loro, dei piazzisti.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

HOLE – Live Through This (DGC)

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Che Live Through This abbia goduto del successo riflesso dei Nirvana e del suicidio di Kurt Cobain è innegabile, soprattutto se confrontato con i volumi di vendita rispetto all’album di esordio, praticamente quintuplicati.

Vero è però che, anche al netto dell’hype generato dai nuovi Sid & Nancy gli Hole riescono a creare un tipico prodotto dell’epoca di riflusso grunge, quella degli epigoni, senza sputtanarsi. Certo, le smussature rispetto al suono di Pretty on the Inside sono chiare ed evidenti, ma le unghiate di Courtney, Eric, Kristen e Patty sono veraci e qualche bel graffio sulla pelle lo lasciano eccome.

Che l’album soffra (o goda, pov) dell’ombra stilistica del marito, diviso com’è fra sfuriate esagerate e guanciali dove far decantare la rabbia, è un’evidenza che porta in molti a pensare che in realtà molti bozzetti siano opera proprio di Cobain (Gutless, Violet, Rock Star, Asking for It, She Walks on Me) e che anche l’affezionato e riuscitissimo omaggio agli Young Marble Giants, amatissimi dal marito, sia stato suggerito dal compagno.

Sarà croce e delizia degli Hole e di Courtney Love che dovrà sempre dimostrare più di altri, di TANTI altri, di essere credibile “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Come davanti ad una corte marziale. Riuscendo a sopravvivere, suo malgrado, a tutti e a tutte. Inseguita da una scia di sangue e di morte.    

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro