THAT PETROL EMOTION – Scherzare col fuoco (e la benzina)

Damian O’Neill sarebbe morto pompiere (facendosi ambasciatore di “una tranquilla rivoluzione”) ma noi non potevamo ancora saperlo quando, nel lontano 1986, Manic Pop Thrill scese dal cielo per appiccare il fuoco a casa nostra.
L’incendio degli Undertones si era spento da poco ma nessuno immaginava che qualcosa di ancora più aberrante sarebbe divampato da lì a breve, sebbene il trittico di singoli KeenV2Good Thing avesse reso già manifeste le intenzioni piromani dei That Petrol Emotion. Avvertimenti presi alla leggera, perché in un’Inghilterra infettata da centinaia di singoli eccellenti (erano gli anni della Postcard e della Creation e del mercato intasato dai sette pollici di Pastels, Big Audio Dynamite, June Brides, Jesus and Mary Chain, Fuzzbox, Three Johns, Primal Scream, James, Telescopes, Smiths, Easterhouse, Housemartins, Orange Juice, Josef K) tutto sembrava diventato ordinario.

Invece, bizzarro e fulminante, l’esordio della band irlandese fece il suo ingresso prepotente nelle nostre vite per non uscirne più. Diciassette settimane di permanenza nelle charts inglesi e la conquista della vetta, in una Gran Bretagna assetata di giustizia e parità sociale, cavalcando l’onda del dissenso anti-Thatcheriano e delle smanie separatiste irlandesi.

Un album che sposava aggraziate ninne nanne lisergiche dalla grazia stregata ed arrendevole (il pan-pot scampanellante di Natural Kind of Joy, il carillon velvetiano di A Million Miles Away, il valzer di Lettuce, le dimesse lap steel di Blindspot) a deflagrazioni elettriche devastanti (le implosioni di rumore che bruciano Lifeblood, il vortice marziale e implacabile di Can‘t Stop, il rockabilly psicotico di Mouth Crazy, le epilessie grumose di Cheapskate, le derive acide di Tightlipped). Mosso da una nevrosi che è figlia diretta del rock metropolitano di Velvet Underground e Pere Ubu, il rock elettrico di Manic Pop Thrill si schiantava addosso con un parossismo simile al punk fragoroso dei Buzzcocks e alle spirali elettriche del sound dugga dei Wire ma pure alla psichedelia sghemba dei Television e al ragliare deforme di Captain Beefheart.  

Con Babble, l’anno dopo, saranno già altrove. E poi sempre più lontano, a dare compulsione ritmica al loro suono originario, ma i That Petrol Emotion di questo debutto restano una delle cose più deflagranti della Gran Bretagna dei mig-eigthies.

 

Dopo il bagno elettrico di Manic Pop Thrill i That Petrol Emotion cominciano lentamente a mutare pelle. Le chitarre diventano più scattanti, dinamiche mentre la batteria si accende come una fila di candelotti di polvere pirica facendo di Babble uno dei dischi pionieristici per il rinnovamento della musica inglese dei tardi anni Ottanta e la fusione tra la club culture e l’indie rock che esploderà definitivamente con i Primal Scream e gli Stone Roses. Su Babble questa unione è più concettuale che reale ma lo scarto in senso propulsivo rispetto all’esordio è marcato sin dall’apertura affidata a Swamp: l’ossessione per lo zolfo beefheartiano è ora alterata da sincopi funky metalliche che esploderanno nelle vampate pirotecniche di Split, Creeping to the Cross e In the Playpen.

La tensione psichedelica circolare del primo album dà vita a Static, Inside e Belly Bugs, gli episodi più placidi di un disco che non riesce a rinnovare la forza dell’esordio ma che traccia idee nuove che pezzi come Dance Your Ass Off o il Jet Fuel Mix di Big Decision inclusi tra i bonus della successiva ristampa su cd banalizzeranno fino a renderle oscene, depunkificando del tutto gli eredi legali degli Undertones.

Babble è ancora un disco semi-perfetto: un anello di intersezione tra le facce smagrite dalle droghe dei Television e il muso duro dei Three Johns.  

Un sacco da boxe su cui i Gang of Four possono immaginare di prendere a cazzotti Mick Jones e i suoi Big Audio Dynamite.

 

Chi ha ucciso i That Petrol Emotion? L’acid-house? Qualche sicario venuto giù da Manchester dentro i suoi pantaloni baggy e la sua T-shirt con lo smile? L’IRA? I Cameo? O forse, si sono uccisi da soli?

Chi lo sa.

Quel che è certo è che le sperimentazioni pirotecniche di Babble conducono dritte dritte nel confuso gorgoglio di End of the Millennium Psychosis Blues, disco pasticciato e reso ancora più sgradevole dalle tensioni tra i fratelli O’Neill che si trascinano per tutta la durata delle registrazioni, concludendosi con la defezione di Sean. In più di un’occasione siamo ai limiti di un’incolore parodia funky. E, pallore per pallore, nei pezzi che restano anche in una smunta scimmiottatura dei That Petrol Emotion medesimi. Siamo dentro un fuoco d’artificio che non desta nessuno stupore. Ammutoliti più dall’impaccio con cui vediamo i fochisti armeggiare con quel che dovrebbe deflagrare e che invece suona come una scacciacani in mano ad un vigilante neo-assunto.

Ah…l’emozione all’odore di benzina? Evaporata.  

 

Con la defezione di Sean O’Neill il ruolo di compositore del batterista Ciaran McLaughlin si fa sempre più focale all’interno delle dinamiche dei That Petrol Emotion. Ben più della metà della scaletta di Chemicrazy è infatti frutto della sua “penna”, e non è neppure la parte peggiore: la ballata Mess of Words e la spirale elettrica Scum Surfin’ sono infatti fra le cose migliori di un disco che per il resto e nonostante il gran petardo di Hey Venus scagliato come un residuato bellico dei tempi di Babble proprio ad inizio dell’opera e i bei fraseggi di chitarra che animano Blue to Black, mostra una band in profonda crisi e che cerca di tenere il passo con le nuove istanze della musica britannica, in quel momento ostaggio degli Stone Roses. La consapevolezza, purtroppo condivisa dalla casa discografica, che il mondo possa fare a meno di loro comincia a prendere corpo e ad acuire la crisi creativa dell’O’Neill superstite, ormai messo all’angolo e quasi pronto a gettare la spugna. Imbevuta di quel po’ di benzina che è rimasta. Nella speranza che magari possa prendere fuoco.  

 

Un colpo di coda quasi inaspettato.

Forse una sorta di riscatto, dopo l’invito della Virgin a lasciare la sede dell’azienda.

Fireproof, atto conclusivo della vicenda That Petrol Emotion, brucia di un fuoco ravvivato e in larga parte, nuovo. Fatta salva l’ormai familiare voce di Steve Mack, il sound della band irlandese si lega al suono dei dischi precedenti solo attraverso un piccolo conduttore elettrico ma è riformulato in una chiave più attuale, con un wall-of-sound allineato a quello del nuovo brit-pop e a tratti davvero incontenibile, come nella bella Last of the True Believers, la progressione alla Oasis di Infinite Thrill o nell’heavy sound di Metal Mystery, senza più disdegnare assoli spericolati. Una piccola rivoluzione che regala, inaspettatamente e dopo tanti anni, nuovamente la cima delle classifiche alla band di Damian O’Neill.

Peccato davvero che i numerosi colpi a salve (Speed of LightEverlasting Breath7th WaveHeartbeat Mosaic sono irritanti robette blue-eyed soul di cui si sarebbe vergognato anche Roddy Frame) sprechino la polvere da sparo riversata abbondantemente su pezzi come Detonate My DreamsCatch a Fire o Too Late Blues lasciandoci col rammarico di una grande, a tratti grandissima, band che ha dilapidato il suo potenziale in un enorme, effimero fuoco d’artificio.

 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

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