RED HOT CHILI PEPPERS – Blood Sugar Sex Magik (Warner Bros.)

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Dopo essere stati per anni un gruppo di culto snobbato dalla critica e dal pubblico che conta, gli anni Novanta regalano ai Red Hot Chili Peppers il grande successo e la stima che era stata loro preclusa a causa della loro immagine burlona e fancazzista.

Il trampolino di lancio è la colonna sonora di Pretty Woman, grandioso successo di botteghino cui la band regala Show MeYour Soul ma quello che contribuisce a far esplodere il quartetto di Los Angeles è lo sdoganamento della musica funk operato dalle posse hip-hop e il risanamento della frattura tra musica rock e cultura rap che si respira all’alba del nuovo decennio. La fusione dei due linguaggi, che verrà storicizzata come cross-over e che i RHCP in realtà masticano già da otto anni buoni, alza all’improvviso le quotazioni della band.

E nel 1991 tutti prendono seriamente quello che prima veniva solo considerato un gruppo-barzelletta.

Blood Sugar Sex Magik, con la produzione astuta di Rick Rubin, diventa a quel punto un disco destinato a diventare epocale.

Diciassette canzoni in cui i Peppers finiscono di emulare Stevie Wonder e George Clinton per trasformarsi nella più muscolosa funky band bianca in circolazione, mischiando le carte con possenti riff di impronta metal e bilanciandoli con ballate mielose che giustificano la scelta del secondo elemento del titolo e che purtroppo diventeranno da lì a qualche anno lo standard del gruppo, con buona pace dei puristi funk.

Flea e Smith diventano qui una macchina funky perfetta ed invincibile, in grado di reggere in autonomia l’intera impalcatura di alcuni brani (si ascoltino Suck My Kiss Give It Away) mentre John Frusciante riesce ad essere parsimonioso ma straordinariamente efficace nel trovare sempre il trucco giusto per definire il pezzo, pur senza essere un virtuoso dello strumento.  

Kiedis dal canto suo cambia frequentemente registro, passando dagli scioglilingua rap al tono più confidenziale a seconda della bisogna, assecondando i climi pulsanti o morbidi che si succedono senza soluzione di continuità sul doppio album più venduto di quell’anno.

Ma sono ovviamente anche le mani e le orecchie di Rubin a dare il valore aggiunto al pastiche sonoro dei quattro californiani, definendo i contorni di ogni singolo strumento. Basso, chitarra, batteria e voce escono fuori dalle casse con la tracotanza impetuosa e fortemente erotica che si adatta al corpo dei Peppers come i loro tatuaggi. La maestria di Rick sta nell’affiancare gli strumenti senza sovrapporli, in un lavoro di produzione concettualmente all’opposto da quello di Phil Spector ad esempio. Se il buon Phil costruisce il famoso muro di suono, Rubin lavora applicando la tecnica del writer di graffiti, accostando i colori e lavorando sul cromatismo piuttosto che sulla struttura portante, esaltando quindi la flessibilità che la musica dei Peppers richiede.

Perché puoi chinarti su una donna come un blocco di granito.

Ma se ti chini su di lei plastificandoti sulle sue curve, difficilmente ne uscirà viva.

                                                                                    Franco “Lys” Dimauro

 

MONSTER MAGNET – 4-Way Diablo (SPV)    

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4-Way Diablo è il disco della resurrezione, e non solo a livello artistico, per i Monster Magnet, ovvero una delle band cardine degli anni Novanta, in culo ai tristissimi profeti del post rock e ai fisici falliti del math-rock.

La novità più rilevante è che Dave Wyndorf non ci ha lasciato le penne. Un’overdose quasi mortale aveva appeso ad un filo la sua vita e ibernato quella della sua band alla vigilia del tour europeo di Monolithic Baby: rivedere ancora una volta il caprone galattico sulla cover di un disco non è mai stato così piacevole.

Ma veniamo all’album: i Monster Magnet non sono più una band di space rock tout-court, non nell’accezione allucinata e dopata dei loro tre “classici” (Spine of God, Superjudge e, in misura leggermente inferiore, Dopes to Infinity), ma una band di potente rock moderno con forte eco di psichedelia heavy dei sessanta. Il loro suono ormai da anni si è “disintossicato” pur senza rompere del tutto i ponti con le orbite cosmiche che da sempre hanno costituito il lato più seducente e alieno del loro suono. 4-Way Diablo è dunque un disco di rock quadrato, granitico, governato dalle chitarre di Dave e Ed Mundell che riserva ottimi momenti (l’implacabile uno-due delle iniziali 4-Way Diablo e Wall of Fire; Cyclone, solcata da gelidissime folate di una qualche tempesta spaziale; l’algido blues di I‘m Calling You; il rassicurante mid-tempo di A Thousand Stars introdotto dagli oscilloscopi di Freeze and Pixelate che celebra il ritorno alle soundtracks per film immaginari tanto cari alla band newyorkese e sulle quali torneranno a breve a lavorare), cadute di tono (You‘re Alive, con una linea melodica presa di peso, anche se credo in assoluta buona fede, dalla I Wanna Hand to Hold di Spencer P. Jones e la cover di 2000 Light Years from Home degli Stones psichedelici i tonfi più clamorosi) e qualche insolita sorpresa (la conclusiva Little Bag of Gloom: due minuti e 11 secondi di organo ecclesiastico su cui si stende la voce di Dave, trasformato per l’occasione in un crooner venusiano che ci racconta la sua discesa nell’oblio del coma dello scorso anno). Il tutto suona però più naturale e meno costruito rispetto alle ultime sfocate prove in studio, da Powertrip in poi, recuperando in parte il calore garage dei loro esordi, prova ne sia che una delle tracce è un rifacimento di un loro vecchio demo dell’88 (andate a risentirvi l’ormai introvabile Love Monster, NdLYS).

Malgrado abbiano già scritto i loro capolavori, i Monsters restano una delle poche band per cui valga ancora la pena mettere mano al portafogli.

 

                                                                              Franco “Lys” Dimauro

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