La trilogia terminale dei Wall of Voodoo. In tutti i sensi.
Perché dopo l’addio di Stan Ridgway i Wall of Voodoo scenderanno velocemente i gradini dell’oblio bruciando per sempre e in maniera perversamente oscena una delle più avvincenti e insolite storie della new-wave americana.
“Non erano più i Wall of Voodoo” ammetterà Stan anni dopo. E fu chiaro a tutti che non lo sarebbero più stati. Andy Prieboy, l’affascinante pistolero che viene chiamato a rimpiazzare Ridgway all’indomani del tour del 1983 non ha lo stesso carisma del suo predecessore, a dispetto del suo look da cowboy gentiluomo. Per rinvigorire il gruppo è necessario richiamare alle armi Bruce Moreland che fa quel che può ma non abbastanza per salvare Seven Days in Sammystown dallo sfacelo.
La dignità è garantita da un paio di tracce: Big City incalzante e dinamica come ai vecchi tempi e la già più prevedibile spaghettata western di Far Side of Crazy fatta con i fagioli in scatola. Tutto il resto (con un po’ di rammarico per il nervoso scioglilingua alla Adam and The Ants di Room with a View, NdLYS) scivola nell’oblio, prodotto malamente da Ian Broudie. Uno che ha più simpatia per le chitarre che per le tastiere. E che quindi azzanna il suono dei Wall of Voodoo più di quanto non sia già monco di suo. Il suono della band losangelina sembra essersi inceppato e l’assenza della voce e dell’armonica a bocca di Stan Ridgway pesa nonostante tutto e a dispetto degli sforzi dei fratelli Moreland e di quelli del nuovo frontman.
A Sammystown, il settimo giorno, Dio si riposò.
Il peggio però deve ancora arrivare. Ma arriva.
Nel 1987 i WoV danno alle stampe Happy Planet. Loro sono schierati in fila, come dei Kraftwerk proiettati nella Chicago degli anni ’20. Uno sguardo al futuro e uno, più profondo e nostalgico, al passato. Happy Planet è infatti, nelle intenzioni, un disco che rende omaggio alla memoria. Brian Wilson è la nuova icona (è sua la Do It Again che apre il disco e sua la faccia presa in prestito per il video del singolo) ma anche Elvis e il mondo del cinema fanno parte del Pianeta Felice che tale è solo nel titolo. Perché in realtà se qualche sorriso c’è, è più un sogghigno che una reale smorfia di gioia.
Dal synth-pop al pop sintetico.
La metamorfosi è dunque compiuta.
La spiaggia californiana al posto del deserto del Messico.
Cernie invece dell’iguana a friggere sul barbecue, nonostante attorno alla griglia sia tornato il vecchio produttore Richard Mazda.
L’Happy Planet sembra in realtà il set di I’m a Celebrity…Get Me Out of Here!. Analoga tristezza, analogo simulato sfoggio di imbarazzata normalità, analoga parata di vecchie star di cui nessuno ricorda le gesta.
E infatti, come per la troupe del reality show, i Wall of Voodoo si trasferiscono in Australia, l’unica terra che pare gradire la loro mutazione genetica, a chiudere la loro carriera, come vecchi elefanti pronti a morire. La testimonianza di quell’ ultimo tour, orfano nuovamente di Bruce Moreland come già successo cinque anni prima all’indomani di Dark Continent, è quello che la I.R.S. pubblica a band ormai sciolta, per cercare di mettere in cassa qualche altro dollaro australiano e guadagnarci col cambio. Un disco costruito sul nulla con Andy costretto a parodiare Ridgway sui classicissimi della band (Red Light, Ring of Fire, Mexican Radio) e a provare a lanciare in orbita gli ultimi successi come Far Side of Crazy, Blackboard Sky, The Grass Is Greener e qualche nuovo brano di cui è meglio tacere e su cui la band stessa ha già deciso di porre una pietra tombale.
Nel 1989, poco prima del Muro di Berlino, crolla il Muro del Voodoo.
Qui dentro, sono raccolti i suoi sassi.
Franco “Lys” Dimauro
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