THE SAINTS – Prehistoric Sounds (EMI)

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L’ultimo disco che vede lavorare in coppia Chris Bailey e Ed Kuepper esce ad appena un anno e mezzo dal debutto accecante di (I’m) Stranded ma è lontano anni luce da quello. Una distanza che, seppur mitigata da alcuni esperimenti tentati su Eternally Yours, rimane comunque estesissima.

Come avrà modo di ammettere Kuepper a riguardo, i Saints avevano già raggiunto la perfezione rock ‘n’ roll con il disco di debutto. Tutto ciò che avrebbero potuto dire su quel piano stilistico, sarebbe stato superfluo. Il suo interesse si era adesso spostato verso la musica nera e, con un termine ancora sconosciuto, il crossover. Ovvero il tentativo di fondere il jazz e il R&B con la musica rock. Un esperimento che parte da questo disco per venire poi sviluppato in maniera più interessante e anche più radicale nei Laughing Clowns.

Prehistoric Sounds però, nonostante il fondotinta nero usato per farlo apparire una credibile messinscena del Cotton Club, è un disco pallido che manca anche di quel cinismo che rendeva il disco precedente pernicioso e mordace quanto e forse più del debutto. E se quello era il disco di un gruppo arrabbiato, questo terzo album è il disco di una band rassegnata e pronta a lasciare il tavolo da gioco, costretta a tingere la sua musica di arie western (Swing for the Crime), boogie-woogie (Crazy Googenheimer Blues) o mariachi (Every Day‘s a Holiday, Every Night‘s a Party), a mascherarsi da negretti sorridenti (le cover di Security e Save Me) pur di portare a casa la pagnotta, come i peruviani costretti a suonare il flauto andino agli angoli delle strade. Un po’ come il Bowie di Young Americans e i Doors di The Soft Parade.

Le uniche due cose da salvare sono la tenebrosa Brisbane ammantata di esalazioni stoogesiane e quel picco di luce che è Looking for the Sun.

Una infilata dentro il disco, una fuori da esso.  

 

                                                                                    Franco “Lys” Dimauro    

 

THE WHO – Who‘s Next (Track)  

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Incuneato tra due opere rock come Tommy e Quadrophenia, Who‘s Next è il risultato “ridotto” dell’incompiuta terza opera partorita dalla mente di Townshend a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta.

Il progetto iniziale, intitolato Lifehouse, si rivelerà però talmente complicato a livello concettuale ed artistico, da venire accantonato in favore della più snella scaletta del quinto album della band, diventando il tormento di Townshend (al pari di Smile per Brian Wilson, NdLYS) che lo ultimerà e pubblicherà molti anni dopo sulla sua etichetta personale. Quello che viene invece consegnato alla storia è Who‘s Next, ritenuto quasi all’unanimità il capolavoro del gruppo inglese.

È un disco lontano anni luce dal primitivo suono degli Who, adesso fautori di un sound molto complesso che si apre ora anche alla musica elettronica, esibita subito in apertura col giro di sintetizzatore alla Terry Riley (da cui il titolo, NdLYS) che introduce Baba O’Riley dedicata ai nuovi guru spirituali e musicali di Pete. La chitarra di Townshend arriva solo quasi allo scadere del secondo minuto per ammutolirsi nuovamente dopo venti secondi.

La rivoluzione “sintetica” (usata non solo per la storica intro di Baba O’Riley ma anche per Bargain, Won‘t Get Fooled Again, The Song Is Over, Going Mobile) viene bilanciata dall’uso di parecchia strumentazione acustica (il pianoforte melodrammatico suonato da Nicky Hopkins nei pezzi centrali del lavoro, armonica, fiati, chitarre acustiche) facendo di Who‘s Next un disco molto equilibrato su cui regna sovrano un Roger Daltrey ormai in grado di modulare la sua voce in maniera esemplare, adattandosi con grande abilità istrionica alle escursioni termiche che il nuovo repertorio gli impone.

L’età adulta, quella tanto temuta ai tempi di My Generation, li ha privati di una  rabbia hooligan che adesso rischierebbe di farli diventare degli alieni per nulla credibili.

Gli Who ascendono all’Olimpo.

Per provare quanto sia infinitamente più piccolo il mondo da lassù.  

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

SHUTDOWN 66 – Heading for the Cheatin’ Side of Town (Corduroy)

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Puro suono delinquenziale quello degli Shutdown 66 nati dalle ceneri di Breadmakers e Hekawis.

Infilano una cover intoccabile dei Tell-Tale Hearts come Crawling Back to Me senza ovviamente riuscire a pareggiare quella dei padri ma regalandoci un bel solo di armonica soffiata da Mr. Jay Wiseman degli Hoods in persona.

Tutto il resto è farina dei cinque australiani, impastata con i soliti lieviti R ‘n B (la micidiale title-track figlia dei Pretty Things), folk-rock (Got Other Girls on My Mind), fuzz-punk (Shutdown Again), frat-rock (Sure Does Make Me Blue), demenza Gruesomes (I Can‘t Take You Home) e ballate puttane alla All Night Workers (The Letter). Certo, in considerazione del fatto che il disco esca praticamente in simultanea a ben altri due album (Welcome to Dumpsville su Get Hip e Gotta, Gotta Get Me to Out of It… sempre su Corduroy) fa scattare il rischio sovraesposizione.

Anche un paio di belle tette, se le metti al sole troppo tempo diventano come la buccia di due meloni cantalupo.

Evito di dirvi cosa rischierebbero le vostre palle. 

Provate a chiedere al dermatologo. O ad un perito agrario, se vi piacciono le analogie. 

 

                                                                                    Franco “Lys” Dimauro

THE JESUS LIZARD – Head / Pure / Goat / Liar / Down (Touch and Go)

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Neppure l’odio incondizionato che provo per la musica “digitalizzata” e per le logiche promozionali che le stanno dietro (come quello di promuovere questa Treccani del noise-rock con un inutile sampler digitale di 11 pezzi corredato da ammonimenti dell’FBI e dell’intero albo degli avvocati americani che ti passa anche la voglia di leggere, non solo quella di ascoltare, NdLYS) può scalfire il mio amore per una delle più grandi bands pre-contemporanee. Un suono massacrante e sfigurato, abilmente condotto da Steve Albini nelle fogne metropolitane degli anni Novanta. Un gigantesco coleottero sviluppatosi tra le macerie del post-core dei Flipper e dei Big Black e delle implosioni rumoriste di Glenn Branca. Rumore parossistico che squarcia il petto dell’America e ne tira fuori chilometri di viscere putrescenti e sanguinolente, le stesse che soffocheranno Kurt Cobain. Una visione antitetica a quella dell’altra band “chiave” del hardcore dei ’90, ovvero i Fugazi, priva di qualunque redenzione e totalmente diseducata al bello.

Un annichilente e reiterato stupro alla salma del rock.

L’ultimo abominio consentito.

Bentornato, Cristo Lucertola, R.I.P. Touch and Go e le tue logiche illogiche.

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro