DEPECHE MODE – Ultra (Mute)

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Se Violator era stato il disco di un drappello sopravvissuto (degnamente) all’affondamento della corazzata synth-pop degli anni Ottanta, Ultra è l’album dei Depeche Mode sopravvissuti a loro stessi e in parte resuscitati: Dave spreca nel giro di pochi mesi tre delle sue vite da gatto nero, Alan Wilder sfiora l’impatto con la morte che ha la forma di un aereo militare, Martin Gore è bruciato dalle crisi epilettiche, Andrew Fletcher dalle turbe depressive.  

I labili equilibri privati si rispecchiano in un equilibrio precario collettivo con la dipartita di Alan Wilder rendendo il nuovo album orfano di una delle menti creative del gruppo. Il risultato finale è un lavoro che cerca in qualche modo di apparentarsi con le musiche dance e la decostruzione industrial dei NIИ dall’altro. Un disco dalle atmosfere distopiche che suona come una Madchester senza l’ombra di un sorriso. Un album greve come la situazione morale richiede ma dal cui ascolto si esce stremati e moralmente devastati. Uno specchio nero che riflette le sagome pallide e ricurve dei suoi autori.

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

ANTOINE – Èlucubrations (RPM)

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Prima di scoprire l’amore per la barca a vela, Antoine è già un apolide nello spirito e nelle scarpe.

A venti anni ha già attraversato Madagascar, Canada, Francia, Camerun, Inghilterra, Stati Uniti, Islanda, Danimarca, Svezia. Vagabondo per necessità e per indole.

Nel 1965, per finanziarsi gli studi di ingegneria, decide di offrire i suoi servigi ad Hugues Aufray per tradurre le ballate di Dylan che costituiranno la scaletta di Aufray Chante Dylan.

La collaborazione non sortisce nessun effetto se non quello di spingere Antoine a tentare la carta del folksinger faidate.

Fallito anche il tentativo di abbordare la Barclay Records, le prime canzoncine del menestrello naturalizzato parigino attirano l’attenzione di Christian Fechner, direttore artistico della Disques Vogue.

Nel novembre del 1965 arriva dunque nei mercati un extended play di quattro brani con in copertina un giovinastro in blusa militare che brandisce una chitarra folk e soffia su un’armonica a bocca. Dentro ci sono quattro canzoni che propagandano la vita vagabonda e vituperano la guerra intitolate La Guerre, Ne T’en Fais Pas, Autoroute Europeenne n. 4, Un Jour C’est Longtemps Pour Nous Deux.

Ad affiancarlo ci sono ben cinque musicisti ma è con il supporto de Les Problèmes che Antoine arriva trionfante all’anno chiave del beat con un album epocale e le famose Elucubrazioni e le meno conosciute Contro-Elucubrazioni

Arrivano così, in rapida sequenza, le canzoni in inglese e, quindi, quelle in Italiano che trasformeranno i toni polemici delle sue canzoni, in deliranti e innocue canzonette da sagra paesana (Pietre, Titina, La sbornia, Taxi, Che cos’hai messo nel caffè, La felicità, Cannella, La tramontana) per cui il personaggio viene ancora oggi ricordato.

La raccolta appena edita dalla RPM si ferma per nostra fortuna ai primi due anni di carriera fermandosi un attimo prima del collasso artistico del Dylan francese tanto criticato dai suoi più (Johnny Hallyday) o meno (Jacques Dutronc) illustri connazionali. Adesso, lapidatelo voi.

                                                                                    Franco ”Lys” Dimauro

 

CHRISTIAN DEATH – Only Theatre of Pain (Frontier)

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Rozz Williams è il Conte Dracula di Los Angeles.

Un’anima nera e dannata che si muove all’ombra delle grandi palme, quando il sole ha smesso di illuminare la spuma dell’Oceano e le grandi spiagge californiane.

Un vampiro bambino che si aggira per la città attendendo che il beach-punk anneghi tra le onde del Pacifico.

E il beach-punk, con i suoi surf, i suoi ombrelloni, i suoi bikini e le sue spremute di vitamina, annega.

È il 1982. E il principe va a truccarsi.

Nei camerini del Teatro della Paura, pensando a Christian Dior.

Quando esce sul palcoscenico, accanto a lui ci sono Rikk Agnew (naufrago del vascello Adolescents), James McGearty e George Belanger.

Bianchissimi.

Vuoti di ogni molecola di melanina.

Dimenticati da un sole californiano troppo impegnato ad abbronzare i seni sempre più prosperosi delle Valley girls che appiccicano le chewing gum sule panchine assolate della San Fernando Valley.

I Christian Death portano in scena il loro spettacolo deforme e raccapricciante, evocando uno scenario surreale e blasfemo che è già apologia della morte e abbandono assoluto al suo fascino, invocazione della sua venuta, abbraccio satanico, desiderio masochista. 

La musica di Only Theatre of Pain è un incessante rantolo di dolore, uno spasimo angoscioso che si crogiola nel suo malessere, contorcendosi e compiacendosi del suo stesso incubo. Rozz Williams è l’interprete perfetto di questa accidia divoratrice che è la musica dei Christian Death: dai suoi sermoni necrofili e tombali non trapela nessuna emozione, nessuna catarsi. La sua recitazione, che ha davvero poco a che fare col canto, è un vertiginoso, annichilente sudario di sofferenza, una voragine che ha inghiottito ogni gioia trasformandola in un macabro e spettrale alito che odora di morte.  

Sotto, le chitarre di Agnew finalmente libere dall’impaccio punk, creano un’insidiosa ragnatela di scrosci catacombali e metallici incorniciati dalla ritmica purulenta delle altre due anime della notte.

Only Theatre of Pain col suo gorgoglio di budella metalliche e la sua estetica del disgusto definisce i canoni del gotico americano.

Il Marilyn Manson che voi tutti conoscete era già stato inventato.

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro  

GIL SCOTT-HERON – Pieces of a Man (BGP)

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L’assassinio di Martin Luther King e l’inasprirsi del conflitto vietnamita alla fine degli anni Sessanta contribuiscono in maniera decisa alla lotta per l’affermazione dei diritti civili della popolazione afro-americana statunitense dando una coraggiosa e motivata spinta culturale alla musica nera.

È nei primi degli anni ’70 che i proclami di orgoglio razziale sparati a salve in qualche produzione black del decennio precedente (A Change Is Gonna Come di Sam Cooke, Stay with Your Own Kind di Patrice Holloway, People Get Ready degli Impressions) diventano proiettili vaganti esplosi da mani che hanno fame di riscatto sociale. In rapida successione, gli scaffali di musica popolare si popolano di album “neri” in cui si agita una consapevolezza nuova.

Gli schiavi che hanno per anni cantato il proprio dolore, adesso incitano all’ammutinamento. Dischi come The Last PoetsThere‘s a Riot Going OnWhat‘s Going OnPieces of a ManSuperfly, usciti uno a ridosso dell’altro, sono le nuove trincee da cui il popolo nero scaglia la sua sassaiola di parole.

Album con cui gli artisti neri si tirano fuori dagli altri “ghetti” che sono stati costruiti per loro (quelli della musica soul e dell’R ‘n B sorridente) ed elaborano forme musicali complesse che servono sempre più da veicolo comunicativo e sempre meno da mezzo di intrattenimento.

Gil Scott-Heron diventa “cantante” quasi per caso, spinto da Bob Thiele (l’A&R man della Coral che aveva già trascinato in studio gente come Buddy Holly e Jackie Wilson, NdLYS) che lo invita a recitare le sue poesie sopra una linea di percussioni e pianoforte, realizzando così un disco di spoken word come Small Talk at 125th and Lenox che vende pochissimo ma che suscita l’interesse delle radio più “schierate” grazie all’introduttiva The Revolution Will Not Be Televised.

Thiele crede nella forza di quelle parole più di quanto ci creda il suo autore, tanto da obbligare Gil ad entrare in studio pochissimi mesi dopo per dare un seguito a quel disco, offrendogli la possibilità di scegliersi i musicisti che lavoreranno al progetto di Pieces of a Man. La scelta cade, oltre all’inseparabile Brian Jackson, su Ron Carter, Hubert Laws e Bernard Purdie.

Gente che ha suonato con Miles Davis, James Brown, Quincy Jones e tutto il gotha della musica nera e che costruisce la calibratissima miscela di chitarra, pianoforte, contrabbasso e flauto che sorregge le liriche accese di Scott-Heron lungo i dodici brani registrati in due uniche session di incisione nel 19 e 20 aprile del 1971 e che riascoltati oggi in questa nuova ristampa non hanno perso un’oncia della loro lucidità lirica e musicale, anticipando da un lato la prospettiva culturale dell’hip-hop militante e dall’altro il linguaggio musicale di tanto acid-jazz dei decenni successivi. A suggello del capolavoro, la ristampa BGP include le tre registrazioni inedite dei Black & Blues (la vecchia college band di Scott-Heron e Brian Jackson con Victor Brown alla voce) dello stesso periodo che hanno uno spessore del tutto inadatto a confrontarsi con quello storico dell’album-capolavoro di Scott-Heron di cui mi auguro i vostri scaffali non siano ancora sforniti.  

                                                                                    Franco “Lys” Dimauro 

NO STRANGE – Armonia vivente tra analogie e contrasti (Area Pirata)

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Ogni qualvolta arriva un disco dei No Strange, mia moglie sa che la attendono giorni pesanti.

Giorni in cui le distrazioni, già eccezioni alle regole d’ascolto che mi impongo davanti ad ogni disco, sono rigidamente bandite.

Giorni di volumi esagerati che rendano giustizia al flusso di suoni che vengono giù una volta aperte le cataratte della psichedelia dei No Strange.

Giorni di telefoni spenti, di televisori muti, di porte chiuse.

Giorni di appuntamenti mancati e di colloqui disattesi.

Barricato come un Sandokan nascosto tra i cespugli della giungla malese mi appresto dunque all’ascolto di Armonia vivente tra analogie e contrasti, secondo lavoro del nuovo corso dei No Strange, aprendo il vaso di Pandora che schiude un mondo incantevole ed incantatore dove convivono musica etnica, folk Canterburyano, avanguardia prog, psichedelia onirica, lievitazioni kraute.

Un puzzle caleidoscopico che fa tesoro delle esperienze più intransigenti della musica contemporanea (dal primo, prezioso Franco Battiato all’ipnosi elettronica di Terry Riley, dalle gelide visioni cosmiche dei Tangerine Dream alle risonanze mistiche di Ravi Shankar, dalla psichedelia etnica dei Kaleidoscope alle ambientazioni sintetiche degli Ash Ra Tempel) per costruire un suono che è fantascientifico e spirituale allo stesso tempo, un samsara circolare che si dipana lungo sedici tappe che creano un sistema autopoietico in perenne trasformazione e ridefinizione di se stesso.

Armonia vivente è dunque disco concettuale e privo di accondiscendenze al facile ascolto, marcato da una trascendenza che fa a pugni con i bisogni meramente biologici di cui ci nutriamo quotidianamente, gli unici che per pigrizia ci ricordiamo di soddisfare.

Ad accrescere e prolungare il piacere dell’ascolto, alla versione digitale sono stati aggiunti quattro reperti di lontanissima memoria (Rainbow, You, Tribe from Another World, Lisergic Tomahawk) che, seppure con i mezzi di fortuna dell’epoca, quadrano il cerchio con un modello di percezione psichedelica mai tradita dal gruppo torinese.  

 

                                                                                    Franco “Lys” Dimauro