ELECTRIC PEACE – Lc 12,49-53

Nessuno lo scrisse allora perché troppo vivida era l’epopea roots dei primi, ancora di là dall’arrivare l’hard rock muscoloso e gotico dei secondi ma gli Electric Peace furono, senza volerlo, l’anello di congiunzione tra i Gun Club e i Danzig, entrambe band ossessionate a livello più o meno inconscio dai Doors.

Proprio come loro.

Venuti fuori dal nulla da una qualsiasi periferia di Los Angeles al giro di boa degli anni Ottanta e sprofondati nel nulla tra le onde dell’Oceano Pacifico poco prima che questi terminassero.
Registrate nel 1985 e destinate al disco di debutto, le sette canzoni di Road to Peace vengono cestinate dalla Enigma costringendo il gruppo a confezionarne di nuove per quello che sarà Rest in Peace.

Quando Brian Kild, seguendo la propria ostinazione, decide di pubblicarle per un’etichetta indipendente è il 1989 e la storia del gruppo è già al declino.

Road to Peace è dunque, in tutti i sensi, il Rest in Peace degli Electric Peace.

Scusate il gioco di parole. Ma se gioco con le mani può andarvi peggio, garantisco.

Ancora orfana della chitarra blues di Honey Davis (il “Principe del Blues” che sarebbe poi finito a suonare con mostri sacri come Ted Taylor, Smokey Wilson, Salomon Burke), la musica del gruppo californiano è già quell’impasto malsano di hard-rock visionario che verrà poi elaborato su Medieval Mosquito e Insecticide, calibrato giusto in mezzo a quei punti di riferimento di cui vi dicevo all’inizio e che all’epoca era ancora più di oggi difficile da inquadrare. Tanto che gli Electric Peace finirono per essere infilati mani e piedi (e moto) direttamente nella scena Paisley (finendo anche sul terzo volume di Battle of the Garages). 

Più che per una questione di comodo, suppongo, perché all’epoca era quella la scena più vibrante in termini emozionali.

In grado di tirare come un bisonte imbizzarrito su pezzi come Work So Hard o Drinkin’ and Drivin’ (Til the Day I Die) (quasi un triste presagio di quanto accorrerà al tastierista Jim Hawkinson subito dopo le registrazioni di Medieval Mosquito, NdLYS) o di ammantarsi di tinte macabre su ballate come Something‘s Wrong o Angel e arrotolarsi su criptici giri di hard-rock garagistico sullo stile della band di Alice Cooper o dei coevi Fourgiven (come nella bella Just for Once o nella rutilante I Don‘t Feel Sorry), la musica degli Electric Peace rimane tra le più innovative miscele di rock urbano di quel periodo. 

 

Dinamite, bombe, fucili e coltelli (come quello brandito da Tom Dooley nell’omonima murder ballad che chiude la breve scaletta) sono i protagonisti assoluti di Rest in Peace, l’album d’esordio ufficiale licenziato dalla Enigma nel 1985 dopo un E.P. autoprodotto.

Armi, motori, sesso.

Questo era il mondo di Brian Kild e della sua gang. Pure a costo di rimetterci la pelle o di arrivarci vicino.

Puro noir metropolitano.

Pura, delirante vertigine americana.    

Le cronache dell’epoca parlano di concerti semideserti che erano più raduni per biker che eventi per le orde di “alternative kids” della zona e di dischi che giravano in poche centinaia di esemplari fra i “carbonari” dell’epoca. Perché su una cosa gli Electric Peace primeggiavano su tutti: essere orgogliosamente fuori da ogni clichè e da ogni stile preconfezionato, riuscendo a tirare fuori un suono imbevuto di acid rock, di swamp-blues, di hard-rock, di rock gotico uguale a nient’altro se non a se stesso.

Un suono che scivolava sopra ogni cosa, come bitume.  

Ogni singolo brano degli Electric Peace era dominato da un perenne, consapevole senso di sfida, di minaccia e di tragedia imminente. Una tragedia che si sarebbe poi consumata, in circostanze e momenti diversi, negli ultimi anni di vita del gruppo.  

Più che quella della soleggiata e ridente costa ovest americana la musica degli Electric Peace sembrava proiettare l’immagine di una Gotham City dove Batman si fa largo fra stridori di gomme e sirene di polizia (come nella Sniper on a Rooftop pubblicata ad inizio carriera). Hard-rock per capelloni che non sorridono e che non vanno ai concerti dei Guns N’ Roses se non per pisciare sui piedi dei vigilantes.

 

Honey Davis è oggi un quotatissimo chitarrista blues che gira per i locali e le spiagge californiane con la sua chitarra elettrica.

Tu gli sorridi e lui ti sorride. 

Ma non è stato sempre così. Nella metà degli anni Ottanta, quando è uno dei tanti disgraziati che girano per il lungomare di Los Angeles, lui si sente più disgraziato degli altri. Sua moglie è appena morta in seguito ad una emorragia cerebrale e lui si sente impazzire. La sua chitarra non si è ancora addomesticata al blues e ogni volta che ci mette le mani sopra è come infilarle dentro una cesta di cobra. Un giorno, saputo che Brian Kild è stato appena mollato dalla sua band e dalla sua etichetta, gli telefona e gli propone i suoi servigi. Insieme, reclutano Jim Hawkinson, uno che aveva suonato l’organo dentro quell’altra band disperata che erano i Divine Horsemen e in quattro e quattr’otto mettono mano ad un nuovo repertorio acidissimo che sembra ibridare gli ultimi Doors con i primi Deep Purple, creando una gorgone che fa scempio dello street metal platinato che riempie le classifiche e che traccia più o meno inconsapevolmente la strada per l’hard-rock mutogeno di Jane’s Addiction e dei Morlocks di Under the Wheel e anticipando la skyline gotica che Glenn Danzig sta progettando di edificare sull’orizzonte opposto degli States.

Quelle di Medieval Mosquito sono canzoni abitate dall’odio e dalla consapevole inteluttabilità della morte, che scavano un abisso sotto la crosta di asfalto delle strade californiane, percorse da una febbre che è necrosi delle viscere, arroventate in nient’altro se non nel proprio stesso fuoco che ti macera lo stomaco.

Canzoni dove c’è sempre qualcuno in fuga.

E qualcuno che ti segue ovunque, barattando il suo inferno col tuo.  

 

Vita e morte si intrecciano diabolicamente nella vicenda degli Electric Peace, contribuendo ad alimentare l’aura di leggenda attorno alla band californiana.

Per quello che si rivelerà essere l’ultimo album degli Electric Peace Brian Kild scrive un pezzo che si intitola Shoot Me. Una richiesta che viene accontentata qualche anno dopo, nel 2014 per essere precisi, quando Brian viene aggredito nel cortile della ditta di cambi per auto da corsa che fonderà a Reseda nel 2005.

Brian salverà la pellaccia. Andrà peggio ad un paio di suoi vecchi gregari come Greg Welsh, chitarrista della prima line-up degli Electric Peace morto di AIDS nel 1990 e Jim Hawkinson, morto in un incidente motociclistico proprio il giorno in cui doveva registrare la sua parte su Scar for Life, a compimento di un’altra assurda profezia di Brian contenuta su Road to Peace e intitolata Drinkin’ and Drivin’ (Til the Day I Die). Una casa autenticamente invasa dalla morte, quella degli Electric Peace, visto che nello stesso periodo scompare tragicamente anche Mary Christmas, la compagna di Honey Davis assoldata come hammondista per il suo debutto da solista My Heart Attacked Me pubblicato, guarda caso, per una label chiamata Life & Death.

Di morte e di motori è pure fortemente intriso Insecticide, che suona come i Cult ad un raduno di bikers imbottiti di pillole e alcol. Non ci sono cherubini che volano nella Los Angeles degli Electric Peace, solo angeli che annunciano la morte.

La voce di Kild, la sei corde di Davis e il torbido organo di Hawkinson sono le loro sette trombe. Gli Electric Peace lanciano l’agente arancio sul lungomare di Los Angeles, esfoliando le palme californiane e la pelle dei turisti.  

Trent’anni più tardi, dopo aver messo un po’ d’ordine nella sua vita, Brian cerca di mettere anche un po’ d’ordine nella storia degli Electric Peace, pubblicando dapprima una raccolta dei primi quattro anni di vita del gruppo, allestendo un sito internet ufficiale e quindi, nel 2019, annunciando un “nuovo” album. 

Kill for Your Love arriva nell’aprile di quell’anno, senza alcuna indicazione relativa a luoghi e date di registrazione. E neppure qualche indizio sulle operazioni di “ristrutturazione” cui le canzoni degli Electric Peace sono state sottoposte. Tanto da poterlo spacciare, per chi trent’anni fa non fosse ancora nato, come un nuovo album. Perché, diciamolo francamente, chi tra voi avrebbe il coraggio di andare da Brian Kild, l’uomo che ha più muscoli che capelli e più vite di ogni gatto, l’uomo sopravvissuto ad attentati e galera, l’uomo che ha diviso la cella con Rick James e rubato per anni gasolio dalla macchina di Kurt Cobain, per dirgli che forse è un po’ paraculo? Ne dubito.

Qualche indicazione ve la do io, dicendo che rispetto alla raccolta precedente con la quale condivide oltre la metà della scaletta (gli altri pezzi sono Nothing’s Yours, Nothing’s Mine, Somethings Wrong, Smiling Shadows, Tell Me You Hate Me, Poor Little Girl), la confezione è meno artigianale e la dinamica più alta e pulita. Roba buona per “bere e guidare (finchè muori)”, per dirla con le loro parole. L’immaginario della band, fatto di pistole fumanti, rapporti amorosi che farebbero inorridire qualunque sostenitore delle fondazioni anti-violenza, lavori pesanti, macchine e asfalto, non viene tradito.

Neppure un solo secondo.

Pur nel mondo pieno di traditori che è il mio e quello di Kild.

Le nuove canzoni sputate fuori sporadicamente dagli Electric Peace durante il 2020 vengono raccolte alla fine dell’anno in un extended play físico intitolato You’re Going to Hell. Le immagini di amore ed innocenza usate per caratterizzarle sulle piattaforme online vengono ora sovvertite per tornare ad una copertina legata all’iconografia dannata della band californiana. Il disco si apre col pezzo che intitola l’intero lavoro, un death-rock trionfale ed enfatico nel classico stile della band a metà fra Southern Death Cult e Danzig, un tiro che si stempera nelle tre tracce successive, con gli arrangiamenti da soul posticcio degli anni Ottanta di Dinah Might che sembrano voler ibridare i Blow Monkeys con i Doors, le arie mariachi di Stranded in Love che si aprono in quel sorriso beffardo che abbiamo già visto sulle facce di Phil Spector e Joe Meek e il giro circolare di fuzz di Tell Me You Hate Me che plana su un chewing-gum rock senza mai tirare davvero fuori le unghie per strapparci la carne, a sottolineare un odio fumettistico che è uno dei tratti típici degli Electric Peace.  

Brian Kild vi dà facoltà di sorridere, se volete.

Brian torna a farsi vedere (stavolta per davvero, sulla copertina del disco e sul video che accompagna la title-track) con l’EP Hate Is a Special Feeling nell’estate del 2021. Quattro cavalcate elettriche in odore di hot-rod music e ad un passo dallo stoner rock fumante di marca Fu Manchu.

Puzzo di benzina che si diffonde man mano che le quattro tracce invadono la corsia, anche la vostra. Stavolta si va dritti al sodo, senza nessun compromesso di cattivo gusto. Piedi sui pedali e mani pesanti sugli attrezzi da lavoro. E nessuna concessione al sorriso di circostanza o, peggio, di motteggio: Kild è ancora uno che sa spaccare i denti.

                                                                          

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

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3 thoughts on “ELECTRIC PEACE – Lc 12,49-53

  1. Pingback: Hate is a special feeling: scene alternative toscane nei Novanta – Nazione Indiana

  2. ciao Reverendo Lys,

    ti ringrazio per aver reso onore ad una band di dannati di cui non vi è traccia nell’etere tecnologico.

    Veramente complimenti.

    Al Sangue

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