DROPKICK MURPHYS – The Meanest of Times (Cooking Vinyl)    

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I Murphys hanno ancora la forza di un uragano, e al sesto album non credo ci sia lode migliore da poter fare. Fiera, orgogliosa e compatta la musica della crew bostoniana non perde una briciola del suo impatto e arriva con The Meanest of Times a siglare uno dei vertici della propria carriera e uno dei più accesi dischi di punk-rock del decennio.

Nessun compromesso, nessuna sbandata.

Neanche ora che hanno abbandonato il rassicurante abbraccio della Hellcat, etichetta che li ha visti crescere e diventare quasi delle star, dopo la loro partecipazione alla OST di The Departed (non so se avete visto il film, ma quando parte Shipping Up to Boston ti senti acchiappare il culo dalla sedia e sbattere sul tetto della sala: una bomba al napalm. NdLYS). The Meanest of Times è uno schiaffone in faccia. Un autentico canto di battaglia, aperto al grido di Famous for Nothing: la batteria che corre come un treno mentre tutt’intorno le chitarre e le cornamuse spaccano i vetri delle carrozze.

Tutto è urlato con disperazione e rabbia, come davanti alla prospettiva di un’imminente fine del mondo e bisogna aspettare che si faccia avanti la mandola ubriaca di Fairmount Hill costruita sul giro del traditional Spancil Hill perché il ruggito si plachi. Echoes on “A” Street è uno dei vertici del disco e in assoluto uno dei più bei pezzi scritti dai Murphys: marziale ed implacabile, con voce e cori da pelle d’oca. Una VERA, autentica, gloriosa canzone d’amore. Le cornamuse tornano a bruciare su Flannigan’s Ball con i cameo di Ronnie Drew dei Dubliners e Spider Stacy dei Pogues, nella giga Rude Awakenings e l’anthemica Never Forget dove a cantare non è più uno, due o dieci cantanti ma l’intera comunità irish. Quasi in chiusura spunta la rendition di Johnny, I Hardly Knew You e la mente vola ai Clash di English Civil War e alla stagione d’oro e fuoco degli Easterhouse. Ma sentire Al Barr marciare al grido di “With your guns and drums and drums and guns, hurroo, hurroo” brucia la pelle come diossina. The Meanest of Times è definitivamente uno dei dischi di combat-rock più belli e roventi di tutti i tempi.

Ora prendete i vostri fottuti dischi dei Modena City Ramblers e sputateci sopra.

 

                                                                                 Franco “Lys” Dimauro

R.E.M. – Murmur (I.R.S.)

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Fragile. Introverso.

Quasi sottovoce. Proprio come un mormorio.

Murmur è il suono dei R.E.M. dimenticati.

Per molti addirittura il suono dei R.E.M. sconosciuti.

Sebbene il suo potenziale sia stato col tempo disinnescato dai suoi stessi creatori, superato e schiacciato da palazzi sempre più grandi, Murmur resta un capolavoro naif di artigianato pop alla cui bellezza è impossibile e criminale sfuggire.

Tutto è sottodimensionato rispetto alle future produzioni del gruppo di Athens eppure tutto viene accennato: gli intrecci vocali dei Byrds, l’inquietudine dei Television, certi deliziosi sapori country, qualche sterpaglia folk, opalescenze psichedeliche e piccole ombre new-wave.

Nessun assolo, nessuna sovrabbondanza, nessuna concessione all’hi-nrg disco delle nuove icone gay o ai muscoli della maschilista comunità heavy-rock.

Quasi un disco asessuato, in quegli anni in cui la radio e la tv fa il pieno di ormoni.   

Le liriche enigmatiche (qualcuno ha mai capito di cosa parlasse Sitting Still? NdLYS) porte con accenti e inflessioni altrettanto ambigue da Michael Stipe completano la ricetta conferendo a tutto il disco quel fascino da cantilena psicotica che ne accentua il carattere umorale.

La struttura generale dei pezzi non ha ancora acquisito quella solennità da età dell’oro, quella lievitazione che verrà fuori nei dischi successivi ma ha un suo peculiare taglio minimale e una ripetitività spiroidale che si incastrano fino a sbocciare nell’atto liberatorio di armonie corali sovrapposte. Buck lavora su piccole trame chitarristiche ben sorrette dall’ordito del quattro corde di Mike Mills, fenomenale nel dare spessore a quelle esili imbastiture jingle-jangle e allo stesso tempo a creare per proprio conto una linea che serva da sostegno melodico al canto di Stipe e una incalzante sequenza ritmica che possa puntellare il pregevole impegno ritmico di Bill Berry.           

Quattro personalità musicali fortissime che lavorano in perfetta interdipendenza senza soffocarsi l’un l’altra, provando tutte insieme a “sorreggere il peso del mondo”. Per i prossimi trent’anni almeno. 

                                                          

                                                                   Franco “Lys” Dimauro

JAKE HOLMES – “The Above Ground Sound” of Jake Holmes (RadioActive)

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Straquotato tra i rari vinilitici, giunge ora alla ristampa su CD il primo album di Jake Holmes: è lo schiudersi magico di uno dei più bei scrigni di folk music dei tardi sixties.

The Above Ground Sound” è un disco di plettri. Nessun segno di pelli e tasti di avorio, solo sedici corde ad intrecciarsi nel raga byrdsiano di Lonely, nel bucolismo cupo di Too Long e nel vertice del disco, quella Dazed and Confused che colpì pure l’immaginario di un giovane Jimmy Page che ne carpì il segreto per gli ultimi giorni dei New Yardbirds senza tuttavia riuscire a raggiungere, nella track definitiva che finì sul primo viaggio dello Zeppelin, l’apice drammatico di questa sua versione originale. Maestosa e inquietante, è una cinghia di dolore blues che si stringe attorno al collo fino alla stretta finale. Altrettanto bello il cinguettìo di Wish I Was che accenna già alle melodie molto Love del suo secondo disco. Un must.

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

 

THE STRAWBERRY ALARM CLOCK – Incense and Peppermints / Wake Up…It‘s Tomorrow (Tune-In)

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Nati nel 1966 a Glendale col nome di Quacker Oats prima e quello di Sixpence dopo, gli Strawberry Alarm Clock diventano tali nella primavera dell’anno successivo.

Ad imporli immediatamente è Incense and Peppermints, uno dei tormentoni della stagione psichedelica che torna periodicamente a spargere sali acidi, ogniqualvolta sia necessario evocare la stagione dei fumi dopati dell’ epoca (Beyond the Valley of the Dolls nel 1970, Austin Powers nel 1997, Recess: School’s Out nel 2001, i Simpsons, svariati programmi beoni sui Favolosi Anni Sessanta, Red Ronnie e Carlo Conti). Sopra quel successo il gruppo californiano struttura il suo primo album portandosi in studio tutti gli strumenti che può. Nella confusione, pure due bassi. Li usano entrambi per un paio di pezzi, poi George Bunnell preferisce dedicarsi a saccheggiare la restante scorta di chincaglieria al loro servizio. Mettono insieme nove brani, ci aggiungono la fortunata title track e lo consegnano alla Universal che li invita a posare infilati dentro i pigiami indiani in voga nella comunità hippie dentro la boutique indiana Sat Purush. Del resto dentro il disco tabla e flauti suonano a profusione, come se dovessero incantare chissà quali serpenti, fusi assieme a tappeti di Farfisa, marimba e xilofoni ed armonizzazioni vocali che fanno guadagnare alla band diverse date fianco a fianco con i Beach Boys.  

Una ricetta che si ripete sul disco immediatamente successivo e che fonde pop barocco e psichedelia creando un nemmeno tanto improbabile incrocio tra i Turtles e i Left Banke. Roba incredibilmente invecchiata, ora che la Tune-In ci da modo di ascoltarla tutta di fila, assieme ad altri tre estratti del biennio 67/68.

È l’ora di ricoprirsi i piedi. E di curarsi i reumatismi.

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

THE LONG RYDERS – State of Our ReUnion (Prima)  

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Uscirà solo l’anno prossimo il DVD che documenta la reunion dei Ryders del 2004, a diciassette anni dalla separazione alla vigilia del Joshua Tree tour degli U2 che li vedeva come opening-act. Fatto salvo che le reunion non impressionano più nessuno e anzi spesso fanno più danno che altro, rivedere i Ryders nella line-up originale rimettere mano al loro repertorio classico (ma nella scaletta del tour c’era la consueta “riserva” di covers, dagli Elevators agli Undertones, NdLYS) dà ancora qualche brivido, soprattutto quando le dita scivolano su pezzi inviolabili come la perfetta Ivory Tower scritta dal primissimo bassista Barry Shank o la cavalcata C&W di Final Wild Son. Fuori tempo massimo per raccogliere quanto i Ryders avrebbero meritato quando erano in salute ma ritemprante per quanti hanno respirato la polvere dei loro cavalli.

 

                                                                                       Franco “Lys” Dimauro