AA. VV. – Nuggets Box # 2 (Rhino)    

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Cosa si può dire sulle Nuggets che non sia già di dominio pubblico?

Chi mi legge conosce la portata storica di quel progetto ideato da Lenny Kaye e che contribuì in maniera determinante non solo all’esplosione di tutto il revival meo sixties degli anni Ottanta ma anche, sebbene molti ne abbiano preso coscienza più tardi, a forgiare musicalmente le coordinate di molto punk-rock già dalla metà degli anni ’70.

Le Nuggets sono dunque l’emblema di quella purezza etica invocata come antidoto a quel cortocircuito culturale che al tramonto degli anni Sessanta trasformò la ribellione giovanile in una incerta macchina di protesta goffa ed impacciata e la spinse a crearsi una identità sociale che non le spettava.

Era la generazione dei beatnick che affogava nella cacca del Vietnam e che si ritrovava di colpo adulta, bruciata dalle droghe, atterrita dal futuro.

Più delle compilazioni che ne avrebbero ricalcato le orme, Nuggets fu un’autentica araba fenice che avrebbe solcato i cieli influenzando lo spirito di migliaia di teenagers creando le basi ed i presupposti per il recupero di quella identità smarrita, cancellata dal napalm e dall’ eroina.

La carica di quelle canzoni era paritetica a quelle che la nuova ondata punk si apprestava a forgiare dopo averne assorbito lo spirito e ancora oggi il valore eversivo di una Talk Talk, di una Riot on the Sunset Strip o di una You’re Gonna Miss Me equivale a quella di una New Rose, di una White Riot, di una God Save the Queen. Non ci sono cazzi.

Il nuovo cofanetto curato (mai aggettivo è più appropriato quando si parla delle ristampe della prestigiosa etichetta di Los Angeles, NdLYS) dalla Rhino segue di tre anni la pubblicazione del giustamente pluriosannato primo box, allargando il recupero di materiale vintage dagli USA al resto del mondo.

La formula resta uguale: 109 canzoni raccolte, 109 gemme distribuite su quattro CD, corredate da un fantastico libro di 100 pagine con note redatte da Alec Palao (A&R per etichette come Ace e Big Beat. Al suo lavoro di ricerca si devono, tra l’altro, le Nuggets From the Golden State, NdLYS) e Greg Shaw, pieno zeppo di accuratissime schede monografiche curate da Mike Stax e strabordante di foto ganzissime.

Un investimento obbligatorio per chiunque, anche per chi possiede tutte le tracce qui sapientemente raccolte.

Ascoltare per cinque ore di fila canzoni come queste è come avere un rapporto sessuale con una donna pluriorgasmica.

Ogni traccia, dalla più brutalmente punk alla più LYSergica ed espansa è un’emozione unica, amplificata dall’ascolto di quella immediatamente successiva.

I nomi coinvolti sono tra i più rappresentativi di quel decennio: Creation, Master‘s Apprentices, Birds, Eyes, Haunted, Outsiders, Pretty Things, John‘s Children, Easybeats, Fire, Open Mind, Missing Links, Cuby + Blizzards, Small Faces per finire con grandi band di culto come i giapponesi Mops o gli australiani Elois (la loro By My Side venne recuperata da Untold Fables e Morlocks negli anni ’80, NdLYS).

Certo, scavare in un archivio così immenso ed eccitante come quello lasciatoci da quel decennio non è facile. Eppure Nuggets Box riesce a mantenere un giusto equilibrio tra furia garage, devastante R ‘n B, pop psichedelico, allucinazioni freakbeat, sussulti mod e addirittura i movimenti tropicalisti brasiliani offrendo davvero la più intensa esperienza di ascolto che vi possa capitare.

Acquistarla più che un dovere, è un obbligo morale.

 

                                                                                                          Franco “Lys” Dimauro

NuggetsII

THE CRAMPS – Fiends of Dope Island (Vengeance)

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Se state pensando che pare sia passata un’eternità non vi sbagliate di molto.

Era da sette anni che il circo trash dei Cramps non faceva tappa in città.

Giusto il tempo di rimettere mano a parte del proprio catalogo e ripubblicarlo sotto il marchio Vengeance e di sistemare qualche scheletro, stavolta vero.

Bryan Gregory ha spento un paio di anni fa quello sguardo che si proiettava torvo dalla copertina di Songs the Lord Taught Us e John Agar (interprete di pellicole culto come The Mole PeopleTarantulaJourney to the 7th Planet e al quale questo nuovo Fiends of Dope Island è dedicato, NdLYS) ci ha lasciati poco prima che la band entrasse in studio per mettere a fuoco queste “nuove” 18 canzoni che nuove non sono affatto, come le alette attorno all’aggettivo vi hanno lasciato supporre.

Una raccolta dunque?

Si, esattamente.

Come ogni disco dei Cramps che l’ha preceduta, questa è una raccolta di tutta la musica bianca prodotta tra gli anni Quaranta e i Mid-Sixties.

Dentro c’è TUTTO quello che il rock ‘n’ roll era e non è più, nonostante la critica “alta” si cali le braghe davanti a gruppetti come Strokes e Libertines.

Paradossalmente i Cramps sono riusciti dove anche i Ramones erano falliti: venderci la stessa canzone per venticinque anni e farci godere ogni volta come se fosse la prima.

Perché Lux e Ivy non sono una band di rock ‘n’ roll.

Loro SONO il rock ‘n’ roll.

Quello fatto di pose eccessive, atteggiamenti sguaiati e triviali, animato da una truculenza così estrema da rasentare il grottesco.

Essere sopra le righe e fuori dall’ordinario, sempre.

E allora state tranquilli: il moscone di Human Fly continua a volare sulla vostra merda….zzzzzzz…..zzzzzzzz……

La musica dei Cramps è ancora oggi il rumore del ventre sconquassato di Elvis (Elvis Fucking Christ!) e le chiappe di Kristy Fallace sono ancora le più belle che io abbia visto stantuffare su un palco.

Che importa se ad incorniciarle sia sempre lo stesso paio di mutandine?

 

Franco “Lys” Dimauro

MOTORPSYCHO – Let Them Eat Cake (Stickman)

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E alla fine Alice arrivò nel paese delle meraviglie.

Le canzoni dei Motorpsycho hanno poteri ambivalenti.

Riescono a rimanere come sospese nell’aria e contemporaneamente pesantemente ancorate a terra, come se gravassero plumbee sulle nostre teste. Lievitano e sprofondano nello stesso istante, fateci caso. Qualcosa che ha a che fare con la magia, probabilmente. Ci gravitano intorno, maestose. Let Them Eat Cake non è il miglior album dei Motorpsycho, diciamolo con franchezza, malgrado sia superiore ad almeno l’80% di quello che il mercato ci impone. Suona come un monumento. Un Michelangelo che martella la sua opera d’arte dannandosi l’anima nel chiederle/si perché non parli. Eppure, come davanti ad ogni capolavoro d’arte, si rimane lì a guardare, estatici. A nutrirsi di quel trionfo di bellezza.

The Other Fool sboccia, sono petali che si aprono al sole immenso della tundra. La larva che urlava agonizzante dai solchi di Lobotomizer è ora una farfalla svolazzante nel bubblegum pop di Big Surprise (i Lovin’ Spoonful persi in un barattolo di miele) o nel funky sinfonico di Walkin’ with J.

Un disco di transizione, con molta probabilità, siccome sono convinto che dalla glassa zuccherosa di Let Them Eat Cake i norvegesi spiccheranno il volo verso quello che potrebbe essere davvero il loro nuovo, definitivo capolavoro.

Franco ‘Lys” Dimauro

 

BLONDE REDHEAD – Melody of Certain Damaged Lemons (Touch and Go)

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Ho ascoltato per la prima volta Melody of Certain Damaged Lemons lo stesso giorno che è nata mia figlia. Non ve ne fregherà un cazzo, ma non è forse questo quello che chiediamo ad un disco? Cristallizzare un momento, ibernare dei ricordi rendendoli eterni, riassaporarne il gusto ogni qualvolta “quelle” canzoni tornano a riaccarezzarci l’anima, metterlo a custodia del nostro fosforo basculante.

Rifletteteci. Stop.

Evaporati totalmente gli ultimi pesanti fardelli sonicyouthiani, quello che emerge dal nuovo disco dei gemelli Pace è il vero suono dei Blonde Redhead.

Fottutamente intrigante.

Un incedere erotico, sensuale infetta le tracce chiavi dell’album e ne modula gli schemi. Non c’è gruppo che trasudi maggiore coolness del terzetto newyorkese, oggi come oggi. Sottilmente nervosa, come animata da un’epilessia misurata, “studiata”, la musica dei Blonde Redhead gioca a sedurre fino allo stordimento dei sensi ma in un gioco distaccato, e forse proprio per questo più morbosamente perverso.

Non enfatizza, sottende.

Non trascina, si insinua.

Non esplode, si infiltra. Riscopre l’arte pop (Loved Despite of Great Faults, beatlesiana fino al midollo) pur ribadendo le sue devianze (A Cure, catartica wave malata, infetta).

Brucia il cuore, Melody of Certain Damaged Lemons.

Ti percorre le arterie come elettroni lungo filamenti di rame. E ti elettrizza il fiato.

Franco ‘Lys” Dimauro

YOW – Tonight You Look Like a Spider (Joyful Noise)

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Lui ci ha messo quindici anni per farlo, io quindici minuti per odiarlo. 

È il debutto solista di una delle figure-cardine del rock americano degli anni Novanta: David “Howl” Yow. Un disco simile a una fuga. Uno spettacolo di escapismo sonoro con cui Yow prova a fuggire da se stesso, da quell’austera fisionomia noise che egli stesso si era cucito addosso durante gli anni di fuoco dei Jesus Lizard.

Tonight You Look Like a Spider è lontano da tutto quello che avreste mai voluto chiedere a David Yow. E, soprattutto, lontanissimo dalle risposte che vi aspettavate di sentire.

Un’operazione un po’ scellerata di rumorismo e artificio sonoro, come perfida ed esecrabile è la scelta di vendere alcune copie del disco al prezzo di 150 Dollari solo per liberarsi di cinquanta opere scultoree rimaste invendute.

Io il disco l’ho avuto gratis, anche perché dei monoliti di David non ho che farmene. Ho già i miei pesi sullo stomaco, e pesano più dei suoi.

Quindi, date le premesse, non avrei di che lamentarmi.

Però, al di là di questi privilegi, ritengo Tonight un disco totalmente superfluo.

Rumorismi assortiti, campionature di sequenza midi, piccoli siparietti di pianoforti a coda, miagolii di gatto (senza coda), manipolazioni vocali e dabbenaggini di pari portata.

Una sorta di scenografia per un palcoscenico sgombro di attori.

Il noise che lascia il posto al noioso.

Non che noi lo volessimo per sempre schiavo del suo passato. Se è da lì che voleva scappare, ha fatto bene a fuggire.

Ma chiedere al suo pubblico di pagare per la sua evasione, questo forse era davvero moralmente evitabile.

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro  

THE NOMADS – Showdown! (1981-1993) (White Jazz)    

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Ci sono voluti venti anni, esattamente quelli che separano il loro esordio sulle scene dall’esplosione del fenomeno del rock svedese, per raccogliere i frutti di quanto i Nomads hanno seminato nel corso degli anni e vedersi eletti a motore propulsore di una scena che può a ragione, anche puramente anagrafiche, considerarli dei padri putativi. Il loro lavoro di recupero di certe radici venne superato durante gli anni d’oro del sixties-revival da una agguerrita orda di puristi del genere che fecero della Svezia la più esaltante colonia di cavemen del globo e il loro atteggiamento spesso considerato di comodo se non addirittura truffaldino (provate a chiedere a Jeff Conolly dei Lyres come andò con la loro rilettura di She Pays the Rent, NdLYS).

Ad ogni modo oggi i Nomads sono rispettati e riveriti al pari di bands come Dictators, Radio Birdman, Saints o Stooges e approfittando dell’onda montante la White Jazz ristampa questa doppia raccolta pubblicata nel ’94 dalla Amigo e che documenta i primi 13 anni di vita del gruppo con un buon assemblaggio di pezzi live, b-sides, pezzi tratti da compilation e tributi, singoli. Personalmente ho sempre considerato l’approccio del gruppo svedese al 60’s-punk un po’ legnoso e a volte di dubbio gusto (si prendano ad esempio la rilettura di Milkcow Blues o dell’hit dei Lyres oltraggiata dai fiati….NdLYS) e, diciamo francamente, con tutto il rispetto dovuto per la costanza, la tenacia, la perseveranza e la coerenza che il gruppo ha sempre mostrato, in Svezia c’era di meglio 15 anni fa e c’è di meglio ancora oggi.

Resta il fatto che questo è un monumento ad un gruppo che come pochi (i Fleshtones, i Chesterfield Kings, Rudi Protrudi e pochi altri) si ostina a fare la propria cosa senza rincorrere i tempi ma aspettando che, ciclicamente, siano proprio i tempi a dar loro ragione.

                           Franco “Lys” Dimauro

BANDA IONICA – Matri mia (Dunya)    

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Per quanti professano l’orgoglio di appartenere a questa Terra di Poeti, Emigranti e Truffatori che è la Sicilia, i dischi della Banda Ionica dovrebbero avere la valenza di un Testo Sacro, perché sono pieni di quei sentimenti assoluti di cui solo un cuore siciliano credo sia capace. Qui dentro il Dolore e la Gioia danzano abbracciandosi, come nel piroettare festoso di quelle feste popolari in cui il paganesimo rovescia, incantandola, la vocazione celeste al martirio, in cui i Santi ballano e diventano giullari di Dio e il dolore del sacrificio estremo viene esorcizzato perpetuandosi nelle gocce di cristallo che colano copiose da ceri immensi. Su questo nuovo disco, l’iniziale progetto della Banda di recupero del repertorio religioso-popolare siciliano viene deviato verso la forma canzone offrendosi spesso come scenografia per le passerelle degli ospiti coinvolti dal direttore Roy Paci, senza nulla perdere del suo equilibrio tradizionale ma ampliandone le prospettive. Come in quell’accorata preghiera che resta appiccicata in gola a Vinicio Capossela su Santissima dei naufragati, o l’amore amaro narrato da El Mono Loco su Espirita o ancora lungo la dichiarazione di amore assoluto di Mi votu e mi rivotu che la voce di Cristina Zavalloni spinge fin sull’orlo di un melodramma Weilliano.

                                                                                          Franco “Lys” Dimauro

 

BABY WOODROSE – Money for Soul (Bad Afro)  

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Mi confessava tempo fa Dizzy della Detour Records come i Baby Woodrose fossero l’unica cosa “nuova” degna di attenzione uscita negli ultimi anni dal circuito musicale e detto da uno che da quaranta anni pascola in quella merda chiamata rock ‘n roll e che perdipiù ha gusti profondamente “traviati” da musiche di derivazione parecchio distante da quelle praticate dal trio di Copenaghen non mi pare per nulla un giudizio di parte.

Premesso che quando Dizzy espresse questo giudizio si riferiva all’ascolto del loro Blows Your Mind di due anni fa, sarei pronto a scommettere che Mr. Holmes potrebbe di certo ribadire il concetto dopo aver ascoltato questo Money for Soul che rinsalda il legame con la Bad Afro inaugurato dal 7” dello scorso anno.

Money for Soul è un disco bastardo di psichedelia pesa, carico di flashbacks dal retrogusto sixties abbaglianti.

Echi di We the People (ascoltare la citazione di My Brother the Man nascosta tra i flutti di Never Coming Back), Love (quando ti pisciano addosso You Better Run sembra di vedere Arthur Lee strisciare fuori dalla cornice di Da Capo, NdLYS), Litter, Seeds, Electric Prunes che ti piovono addosso amplificati da una pioggia elettrica stordente, invasiva, travolgente: l’innocenza giovanile che cominciava a traviarsi ora lanciata in orbita a perforare gli astri.

Eccezion fatta per la ballata un po’ stucchevole di Carrie, Money for Soul non ha cedimenti di sorta, imprigionandoci nella morsa di un suono che usa le reminescenze storiche del decennio psichedelico riadattandole ad un contesto moderno, certamente più corrosivo e penetrante, come già nel passato prossimo di band come Monster Magnet e On Trial (guarda caso il combo in cui sono coinvolti due/terzi dei Baby Woodrose…) con risultati fuzzedelici addirittura superiori.

Probabile disco dell’anno, soprattutto se il resto del mondo si ostinerà a mettere fuori merda pressata col buco al centro.

Franco “Lys” Dimauro

BOOT HILL FIVE – Back Up # 4 (AUA) 

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Smaltita la sbornia garage punk che aveva generato stelle, comete e meteore durante il secondo lustro deli anni Ottanta, la scena neo-sixties italiana si frantuma, si lacera, ripiegandosi su se stessa, accartocciandosi come carta stagnola sulla fiamma di un cerino.

Molte formazioni cardine del movimento giungevano stremate al traguardo del decennio sfaldandosi o demotivando le iniziali spinte creative, spesso distratte dal altre uve che stavano fermentando nei tini del rock di quegli anni.

È in questo contesto che i Boot Hill Five, raccogliendo nel proprio mosaico i tasselli di bands come Storks e Birdmen of Alkatraz, sublimavano in qualche modo anni di indagine filologica avviata dai due gruppi pisani.

Studi ed ispirazioni delle quali i Boot Hill Five faranno tesoro per intrecciare il loro suono, invero articolato, complesso, ricco di sfumature e contrasti laddove il garage punk degli eighties era stato perlopiù monocromatico. Più che un suono, un’idea di suono.

Plasmata sulle allucinazioni texane di Golden Dawn e Moving Sidewalks, ricamata sulle stoffe westcoastiane strappate dagli abiti di Moby Grape e Tripsichord, imbevuta nel beat “progredito” di bands come i canadesi It‘s All Meat.

Lontani dallo schematismo rigido delle teen-bands cui molte formazioni italiane del decennio precedente avevano guardato come modello supremo e inarrivabile di purezza vintage, così come dalla riscoperta dell’estetica trash/low-fi prediletta dalla nuova flotta filo-sixties che stava crescendo sotto l’ombra di combo estremi come Mummies e Gories, i BH5 costruivano una lingua d’asfalto capace di spaccare in due il cuore dell’America e di assorbirne colori, espressioni, sogni e visioni.

Un forcipe capace di afferrare per il cranio il beat più essenziale e di fletterne lo scheletro.

Ascoltate la loro versione di I Gotta Move dei Kinks che chiude questo disco e capirete cosa intendo.

Altrove, come tra i fumi di codeina che avvolgono il folk stranito di Twinky, ci si trova dinanzi ad un Narciso floricrinito che si contempla XTatico e narcolettico fino a scoprire di somigliare maledettamente ad Arthur Lee.

Dodici tracce colorano dunque il nuovo volume delle Back Up. Non una selezione rubata al pur breve tragitto attraverso cui si snoda il percorso triennale del quintetto toscano (dal ’91 al ’94) ma il risultato delle sessions che avrebbero dovuto calcificare l’ossatura del loro unico album ufficiale ma che invece costituiranno l’inedito canto del cigno per una formazione prossima alla rottura che avrebbe poi partorito gli Standarte e i Pedal Pushers.

Una vicenda artistica iniziata quasi per gioco e consumata quasi in sordina ma sul cui valore vale davvero la pena ritornare, alla luce di quanto emerge da queste tracce capaci come poche altre di prendere in mano l’aeroplanino psichedelico e dirottarlo con mano ferma e capace su rotte tuttora poco frequentate.

E di questo non finiremo mai di ringraziarli.

 

Franco “Lys” Dimauro

AA. VV. – Il canto di malavita: le canzoni della mafia (Amiata)  

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Disco insolito e curioso questo licenziato in Italia dalla Amiata e paradossalmente arrivato da noi dopo aver già venduto un congruo numero di copie nel resto dell’Europa per conto della Play It Again, Sam. Per i cittadini che non masticano la “lingua della mafia” questo disco deve un po’ suonare come certe produzioni di musica tibetana esportate in tutto il mondo dalla Real World. Ma per noi che certe inflessioni le viviamo quotidianamente, il gusto esotico un po’ kitsch lascia il posto all’attenzione per il tema concettuale attorno cui gira il disco.

Il canto di malavita non è infatti un semplice souvenir del Sud Italia anche se immagino che qualcuno lo possa spacciare con facilità per questo (del resto la mafia, come gli spaghetti, sono la cosa più facilmente associata all’Italia nel comune immaginario straniero), ma un documento pregno di un significato meno didascalico. Sbagliato sarebbe del resto pensare che qui si faccia l’apologia della malavita, dei suoi costumi e delle sue leggi: Il canto di malavita è un documento storico/sociale dal valore incredibile che fa luce su un fenomeno ancora oggi non del tutto compreso perché sradicato dalle due origini fortemente intrise nel tessuto sociale in cui esso nasce (la Sicilia, la Calabria, la Campania) e che appare oggi esso stesso lontano dalle sue connotazioni di riscatto popolare. Lo scandaglio della ricerca operata da Domenico Siclari scava nelle leggi (im?)morali (Omertà, Appartegnu all’Onorata) nella ricerca linguistica (sia negli intermezzi parlati che in molti brani si usa il rinomato baccagghiu, lo “slang” parlato tra gli Uomini d’Onore, NdLYS), nella tragica ineluttabilità delle punizioni allo “sgarro” (I cunfirenti, Cu sgarra paga, Sangu chiama sangu), nelle mille sfaccettature e nel percorso quasi obbligato (Canto di carcerato, Ergastulanu) ma vissuto con dignità e orgoglio che segnano le tappe della vita dei “galantuomini”. Il canto di malavita è dunque qualcosa che sta una spanna sopra il “prodotto musicale” (del resto, i mafiosetti da quattro soldi che riempiono le strade oggi si rivolgeranno ad altra roba più banalmente “out” e musicalmente più popolare e disimpegnata, da Franco Staco a Gianni Celestre), è un supporto educativo da portare in giro nelle scuole e negli ambienti più ricettivi per aiutare a studiare il fenomeno mafioso trattandolo non solo con il piglio da cronaca nera cui siamo ormai abituati da almeno un ventennio ma come tappa fondante di un’insurrezione ideologica, di un riscatto sociale nelle terre da sempre vessate dai padroni (i Borbone di allora non erano molto diversi dallo Stato Democratico di oggi) e che sbatte il muso, allora come oggi, sulle stesse ingiustizie e discriminazioni sociali, sulle piaghe dello sfruttamento delle risorse, della manovalanza nera, del “mordi e fuggi” dell’imprenditoria nordista. Compratelo e diffondetelo più che potete ora, prima che quell’altro mostro di cemento del Ponte sullo Stretto diventi l’ennesima usurpazione del nostro orgoglio isolano.

                                                                                 Franco “Lys” Dimauro

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