Dopo anni di rumore assordante, Pete Townshend si educa al silenzio, seguendo l’ispirazione spirituale di Maher Baba.
Se era impossibile zittire del tutto una delle band più fragorose della storia del rock, Tommy riesce nel tentativo di acquietarne l’irruenza e, allo stesso tempo, di rivestirla di quel misticismo che la dottrina del guru indiano ha insinuato nello spirito ribelle di Townshend. Chitarre acustiche e orchestrazioni pompose invadono il campo e concorrono a creare l’atmosfera favolistica che narra, in sequenza, la nascita, il trauma, la schiavitù autistica, le virtù, le esperienze, la liberazione di Tommy, il ragazzo cieco e sordomuto che verrà poi portato sul grande schermo in forma di musical ad opera di Ken Russell.
La grezza intemperanza dei primi anni ha lasciato ora il posto ad una magniloquenza ben sopra le righe, con orchestrazioni operistiche e un lavoro ricercatissimo dal punto di vista vocale e strumentale e ovunque, lungo le ventiquattro tracce che compongono il mosaico di Tommy, si respira un’aria di grandeur maestosa e solenne dentro la quale Daltrey, Moon, Entwistle e Townshend si muovono come enormi pachidermi costruendo un amalgama complesso dove ogni virtuosismo individuale è cesellato e perfezionato a dovere in otto estenuanti mesi di registrazioni, sovrincisioni e missaggio alla ricerca dell’equilibrio perfetto tra forma e contenuto che vedono finalmente l’onore della pubblicazione nel maggio del 1969, quattro mesi dopo la morte del Maher Baba che in qualche modo aveva ispirato il misticismo di cui il lavoro è fortemente intriso e che viene giustamente riverito nelle note del bellissimo artwork Op-Art ideato da Mike McInnerney.
Il lavoro viene presentato alla stampa il 2 di maggio, al Ronnie Scott ‘s Jazz Club di Soho, all’ora di pranzo. Il gruppo sembra voler prendere in giro gli astanti, aprendo il set con una carrellata di pezzi vecchi e nuovi che nulla hanno a che fare con quello che tra poco prenderà vita sul palco (Heaven & Hell, I Can‘t Explain, Fortune Teller, Tattoo, Young Man Blues). Quindi Pete Townshend comincia a mulinare sulla chitarra il riff che introduce l’intero album mentre Keith Moon picchia sulla sua batteria e John Entwistle soffia nel suo corno francese in un tripudio di scodelle di riso e di pollo al curry. Quindi la levatrice annuncia alla Sig.ra Walker la nascita di un bel bambino.
È così che Tommy Walker viene al mondo. Rivelato al mondo da un capellone biondo in giacca scamosciata e da un nasone triste in abito bianco e comode Doc. Marten‘s ai piedi. Costretto a diventare sordo, cieco e muto davanti alle lordure del mondo.
Assieme al dirigibile dei Led Zeppelin pubblicato solo pochi mesi prima, Tommy segna l’inizio della spettacolarizzazione, visiva e concettuale, del rock che diventerà la regola di tutto il decennio successivo. Tour sempre più estenuanti e cinici che avrebbero fomentato rabbia e disgusto (i concerti al Fillmore East e al Cow Palace rimarranno nella memoria “nera” del rock capace di amarsi tanto da uccidere se stesso così come l’esibizione al Festival di Woodstock dove Townshend, in barba al menù à la carte che propone pace e amore minaccia pubblicamente, dopo aver colpito con la chitarra Abbie Hoffman, di uccidere chiunque osi salire sul loro palco, NdLYS) accrescendo la fama sinistra dei loro protagonisti fino a farli diventare degli eroi dell’eccesso.
Tommy rimane però un bellissimo viaggio immaginifico di illusionismo musicale. Meno rilevante frammentandone lo sviluppo concettuale ed isolandone i tasselli (forse con le eccezioni delle sole, esplosive partiture di Pinball Wizard e I‘m Free) ma di grande impatto emotivo nel dispiegarsi sequenziale della sua esoterica, eccentrica e bizzarra sceneggiatura.
Franco “Lys” Dimauro
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