THE BLACK HEART PROCESSION – Three (Touch and Go)

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Black Heart Procession atto terzo. O del dolore. E del nostro bisogno di naufragarci dentro.

Le canzoni del gruppo di San Diego fanno male.

È qualcosa che va oltre lo spleen, è una lacerazione delle carni e dell’anima.

Non c’è altro gruppo capace di denudarvi il cuore come loro.

Sono canzoni che si aggirano come spettri.

Funeree e definitive.

Le guardi in faccia e hai visto la morte.

Non quella spettacolare e splatter di certi baracconi musicali d’accatto.

Stavolta ha davvero la forma di tutte le nostre paure e marcia al ritmo che sappiamo. 

We Always Know  inaugura il disco, spegnendo la luce sin da subito. È il ciondolare di un cappio che stringe al collo le nostre tristezze e le lascia dondolare al soffitto come fantasmi pazzi e disperati. È il noir che esplode in tutto il suo decadente, lancinante, asfissiante lirismo. Leonard Cohen, Tom Waits, Mark Eitzel, Will Oldham fatti a brandelli, divorati dal loro stesso male.

Siamo oltre la disperazione che è reazione al dolore, persi nell’apatia inerte e neghittosa di chi non ha altro a cui aggrappare il proprio mal di vivere se non a quella corda secca che serra le travi sulle nostre teste. Se mi fosse dato scegliere, credo li vorrei al mio funerale, a dare una voce e un volto all’ultimo alito di vento.

Franco ‘Lys” Dimauro

 

CARMEN CONSOLI – Elettra (Universal)

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Elettra è un disco logocentrico. Un disco dove le parole dominano su tutto, come poteva dirsi dei dischi di Rosa Balistreri. Non è una cosa insolita per Carmen ma forse mai prima d’ora la cantante catanese si era messa così a nudo, arrivando a toccare argomenti scomodi come quello trattato su Mio zio (assieme a Così cara di Cristina Donà il più crudo resoconto su una vittima delle attenzioni pedofile scritte in Italia, NdLYS) e a tratteggiare in qualche modo una nuova forma di musica plebea, riscattando il ruolo epico-popolare dei cantastorie di cui è pregna la storia sociale della Sicilia lazzarona intrisa di mitologia pagana tanto quanto lo è la letteratura “colta” da cui è tratta la figura di Elettra, musa “istigatrice” di questo album in cui la figura della figlia di Agamennone è rivista attraverso l’ottica popolana delle donne da bordello. Un pezzo, quello che intitola l’ intero disco, che musicalmente in qualche modo ci riconcilia con la Carmen Consoli già conosciuta, quella delle canzoni con la chitarra in primo piano e ritornello facile, arguto.

Ma Elettra, l’album, è pervaso da questa intimità dolorosa che si agita inquieta in gran parte delle tracce del disco (un “invito al dolore” come lei stessa dice sottovoce sulle note morbide di Sud Est, NdLYS) con l’unica eccezione dell’arrangiamento mediorientale di Marie, ti amiamo, spruzzo esotico condiviso con l’amico Franco Battiato che si adatta a forza alle basse soglie del dolore che invece caratterizzano il resto dell’album e che anticipa l’allegra filastrocca dialettale di ‘A finestra che diventa una balaustra che si affaccia sullo spettacolo teatrale offerto dalla locale fauna isolana: uno spaccato sagace e sottile delle mille anime siciliane che si alternano goffe sotto gli stipiti. Elettra si impone come il “disco della maturità” per la signorina Carmen. E io sono felice di poter annunciare, dopo quattordici anni, l’arrivo del suo primo mestruo.

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

THE IMMORTAL LEE COUNTY KILLERS – The Essential Fucked Up Blues! (Estrus)

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Una chitarra e una batteria: ecco l’essenziale.

Un rumore infernale, come se le chitarre diventassero piano piano due, dieci, cento, una tempesta: ecco il fottuto Muddy Waters tirato fuori dalla fossa e invitato ad una notte di eccessi. Ecco il blues.

Se il Jon Spencer degli ultimi tre dischi vi ha addormentato i sensi, ecco qui quello che ve li farà svegliare con la potenza di un elettroshock.

Chet Wise e Boss Sherrard sono la più fottuta, bastarda, malvagia banda di stupratori del blues da molto tempo a questa parte. Eccessivi come la Blues Explosion del periodo Crypt (ascoltate l’attacco di Let’s Get Killed, quasi un plagio), rumorosi e lascivi come i Cramps di Gravest Hits (Big Damn Roach è uno scontro di locomotrici lungo i binari per l’inferno), dissacratori (Rollin’ Stone trasfigurata in dieci minuti di feedbacks, accordi torcibudella, rumore bianco che s’insinua e poi esplode) e blasfemi, gli Immortal Lee County Killers infieriscono sul cadavere del blues, ne estremizzano gli assunti, lo impalano in un vortice di distorsioni eccessive, volutamente sgraziate. Il processo di ristrutturazione-destrutturazione della sempiterna materia blues portato avanti da anni da artisti come Pussy Galore, ’68 Comeback, Cramps, Bassholes, 20 Miles, JSBX, Railroad Jerk, ecc. deve ora fare i conti con questi altri due debosciati figli di Howlin’ Wolf, e sono cazzi amari.

            Franco “Lys” Dimauro

 

90 DAY MEN – To Everybody: (Southern)  

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Diciamolo: è un periodo di dischi di merda. Voglio essere ottimista, e considerarlo come il preludio a qualcosa che esploderà tra qualche anno. Come quando il Re Leone gira attorno alla preda prima di scagliarsi con i denti sulla carotide della vittima ignara. Voglio ancora sperare che ci sia qualcosa da dire e che non sia qualcosa che abbiamo già sentito. Che ci si prepari, tastando il terreno, a dare una spinta in verticale, come quando un disco degli Hüsker Dü ti prendeva il culo e ti sbatteva il cranio sul soffitto. Per ora molti dischi si limitano a tastartelo, il culo. Te lo palpeggiano come sulla metropolitana. E tasta oggi, e tasta domani. Finché non ti girano i coglioni e decidi di spaccargli il setto nasale. E malgrado le riviste ufficiali continuino a consigliarti almeno dieci capolavori al mese, solo uno stolto può ancora dar loro credito.

A meno che non ci si accontenti di poco.

To Everybody: non è il disco che ti schianta al tetto di casa ma tra quelli che ti palpano il fondoschiena è quello che ti fa godere di più. È un disco che rimescola le carte, che osa, ponendosi come un lavoro di passaggio importante, di evoluzione e non di stasi.

Creativo.

Rischioso.

Che già conosciate o meno il precedente lavoro dei 90 Day Men, poco importa. Non ci trovereste molti collegamenti: il feroce tiro new-wave che era stato sparato da Critical Band è qui fagocitato dentro un ovattato lavoro di complessa struttura progressiva. Riadattato ad un nuovo elaborato livello di scrittura e arrangiamento. Fuliginoso.

Fuorviante.

Dopo essere introdotti da una voce a metà tra John Lydon e Arrington De Dyoniso che declama su un basso mulinante e circolare, quest’ultimo cede la scena, al secondo minuto e mezzo, ai tasti d’avorio di Andy e da qui in poi le atmosfere mutano pelle, indicandoci la strada che porta al climax dell’opera. Chitarre e basso si arrampicano intrecciandosi ai grappoli di note del pianoforte, vero protagonista della rivoluzione in atto nel suono del gruppo di St. Louis….

“da una primadonna all’altra” come ci avevano già anticipato su quel groviglio now wave che fu l’albo di debutto, indicandoci la chiave di volta per l’evoluzione musicale della band. L’aereo dei PiL dirottato nell’aeroporto privato dei Rachel’s.

Il furgone dei Blonde Redhead fuori strada, tra i campi di frumento e avena di una comune hippy in pieno trip Soft Machine. Scuro e sofferto, decadente e malinconico come un disco dei Radiohead.

Nella città che urbanizzò il blues, qualcuno sta lavorando a qualcosa di cattivo.      

                                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

 

THE WHO – Tommy (Track)  

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Dopo anni di rumore assordante, Pete Townshend si educa al silenzio, seguendo l’ispirazione spirituale di Maher Baba.

Se era impossibile zittire del tutto una delle band più fragorose della storia del rock, Tommy riesce nel tentativo di acquietarne l’irruenza e, allo stesso tempo, di rivestirla di quel misticismo che la dottrina del guru indiano ha insinuato nello spirito ribelle di Townshend. Chitarre acustiche e orchestrazioni pompose invadono il campo e concorrono a creare l’atmosfera favolistica che narra, in sequenza, la nascita, il trauma, la schiavitù autistica, le virtù, le esperienze, la liberazione di Tommy, il ragazzo cieco e sordomuto che verrà poi portato sul grande schermo in forma di musical ad opera di Ken Russell.

La grezza intemperanza dei primi anni ha lasciato ora il posto ad una magniloquenza ben sopra le righe, con orchestrazioni operistiche e un lavoro ricercatissimo dal punto di vista vocale e strumentale e ovunque, lungo le ventiquattro tracce che compongono il mosaico di Tommy, si respira un’aria di grandeur maestosa e solenne dentro la quale Daltrey, Moon, Entwistle e Townshend si muovono come enormi pachidermi costruendo un amalgama complesso dove ogni virtuosismo individuale è cesellato e perfezionato a dovere in otto estenuanti mesi di registrazioni, sovrincisioni e missaggio alla ricerca dell’equilibrio perfetto tra forma e contenuto che vedono finalmente l’onore della pubblicazione nel maggio del 1969, quattro mesi dopo la morte del Maher Baba che in qualche modo aveva ispirato il misticismo di cui il lavoro è fortemente intriso e che viene giustamente riverito nelle note del bellissimo artwork Op-Art ideato da Mike McInnerney.

Il lavoro viene presentato alla stampa il 2 di maggio, al Ronnie Scott ‘s Jazz Club di Soho, all’ora di pranzo. Il gruppo sembra voler prendere in giro gli astanti, aprendo il set con una carrellata di pezzi vecchi e nuovi che nulla hanno a che fare con quello che tra poco prenderà vita sul palco (Heaven & HellI Can‘t ExplainFortune TellerTattooYoung Man Blues). Quindi Pete Townshend comincia a mulinare sulla chitarra il riff che introduce l’intero album mentre Keith Moon picchia sulla sua batteria e John Entwistle soffia nel suo corno francese in un tripudio di scodelle di riso e di pollo al curry. Quindi la levatrice annuncia alla Sig.ra Walker la nascita di un bel bambino.

È così che Tommy Walker viene al mondo. Rivelato al mondo da un capellone biondo in giacca scamosciata e da un nasone triste in abito bianco e comode Doc. Marten‘s ai piedi. Costretto a diventare sordo, cieco e muto davanti alle lordure del mondo.

Assieme al dirigibile dei Led Zeppelin pubblicato solo pochi mesi prima, Tommy segna l’inizio della spettacolarizzazione, visiva e concettuale, del rock che diventerà la regola di tutto il decennio successivo. Tour sempre più estenuanti e cinici che avrebbero fomentato rabbia e disgusto (i concerti al Fillmore East e al Cow Palace rimarranno nella memoria “nera” del rock capace di amarsi tanto da uccidere se stesso così come l’esibizione al Festival di Woodstock dove Townshend, in barba al menù à la carte che propone pace e amore minaccia pubblicamente, dopo aver colpito con la chitarra Abbie Hoffman, di uccidere chiunque osi salire sul loro palco, NdLYS) accrescendo la fama sinistra dei loro protagonisti fino a farli diventare degli eroi dell’eccesso.

Tommy rimane però un bellissimo viaggio immaginifico di illusionismo musicale. Meno rilevante frammentandone lo sviluppo concettuale ed isolandone i tasselli (forse con le eccezioni delle sole, esplosive partiture di Pinball Wizard e I‘m Free) ma di grande impatto emotivo nel dispiegarsi sequenziale della sua esoterica, eccentrica e bizzarra sceneggiatura.      

 

                                                                                                Franco “Lys” Dimauro

CORNELIUS – Point (Matador)

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Nutro una cordiale antipatia per i giapponesi.

Malgrado abbiano inventato Goldrake e estremizzato il concetto di bukkake, ciò non è bastato a farmeli venire simpatici.

Ma è un limite mio, come per quelli che amano Marilyn Manson.

Ma un occhi a mandorla che è ossessionato dai fantasmi di Music Machine, Count Five, Beach Boys o Clash piuttosto che da quelli di Caterine Deneuve o Fellini deve avere qualcosa di più che una scorta di rullini Kodak e Fuji nel suo zainetto a tracolla e non deve essere così terribile accompagnarsi ai suoi dischi. Che vivono, è vero, di quell’inconfondibile aria di déjà vu che tracima copiosa da gran parte delle produzioni del Sol Levante ma che qui, invece che diventare parodia, viene riassemblata in un contesto dalle forme nuove.

Se insomma i dischi dei Pizzicato Five possono paragonarsi a quelle famose bombolette con su scritto “aria di Napoli”, quelli di Cornelius sono magari delle matrioske di Mamma Russia, dove se vuoi puoi nasconderci dentro anche un tocchetto di fumo. Detto questo, Point è un disco meno “esagerato” rispetto alle passate produzioni di Cornelius, con frequenti richiami alla natura ed ai suoi rumori, dai cinguettii di Bird Watching at Inner Forest al gorgheggiare di Drop, fino al liquido scorrere di Tone Twilight Zone, crepuscolare come il titolo suggerisce, quasi alle soglie del raccoglimento ambient. Acustico e farcito di beeps, lo ricorderemo magari come l’album new-age di Keygo, se riusciremo a cancellare il ricordo delle stilettate di I Hate Hate, e non saremo distanti dall’essenza del disco, che Cornelius ha voluto quasi spartano, se confrontato con la risaputa abilità del nipponico al taglia e cuci sintetico.

 

Franco “Lys” Dimauro