AZTEC CAMERA – High Land, Hard Rain (Rough Trade)

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Nel gennaio del 1981 New Musical Express stampa la prima di una lunga e gloriosa serie di cassette. Si intitola C81. L’intento è quello di documentare la scena indipendente britannica con un supporto acustico che possa rendere tangibile quello di cui la rivista profetizza sulle sue colonne. Alcuni protagonisti sono già delle stelle. I reduci della stagione ska britannica come Specials o Beat ad esempio. O il santone Robert Wyatt. Oppure i Buzzcocks, le Raincoats, Ian Dury, i Pere Ubu.

Altri sono emergenti. Timidi ma risoluti, come tutti gli emergenti. Tre di loro vengono dal piccolo salvadanaio della Postcard Records. Come dire, cartoline dalla Scozia. Una di queste è scritta con calligrafia incerta ed adolescenziale da un tale Roddy Frame. Sedici anni, all’epoca. We Could Send Letters dice. Appunto.

È la nascita artistica degli Aztec Camera, in breve tempo messi sotto torchio dalla Rough Trade per cagare canzoni sospese tra la gracilità del giovane guitar-pop scozzese e l’appeal “adulto” del cantautorato americano di gente come Paul Simon, Jackson Brown, David Crosby. Perché Roddy, a dispetto della giovane età, è uno che ha la capacità di scrivere canzoni immediate e leggere senza cadere nella mediocrità del pop da boyband. Ha un linguaggio per nulla banale di chi ha letto Keats ed ha provato a tagliarsi con la lametta dell’amore. E delle dita che sanno pizzicare le corde della chitarra con ricercatezza sopraffina, alternando la luminosa letizia degli scatti funky (Walk Out to Winter) alla discrezione sofisticata del jazz (Release), brillanti trame jingle-jangle (The Bugle Sounds Again), il tocco fiero delle vecchie macchine antifasciste di Woody Guthrie e Pete Seeger (Down the Dip) e arpeggi rockabilly (Queen Tattoos, pubblicata come retro per Pillar to Post). Un gruppo capace di fare ingelosire Marr, sin dagli inizi della storia (il chitarrista ammetterà in seguito di aver scritto This Charming Man in un impeto di competizione con la band scozzese dopo aver sentito lo scintillìo della chitarra di Frame su Walk Out to Winter. Personalmente credo fosse poi arrivato ad odiarlo dopo aver ascoltato il tappeto di chitarre che si stende sotto The Boy Wonders, NdLYS). Un talento, quello del giovane Roddy, che anni dopo gli assicurerà una richiesta di “soccorso” da parte di Morrissey per assicurare un futuro agli Smiths dopo gli scazzottamenti verbali col vecchio compare Johnny Marr. Una fucina, quella degli Aztec Camera, da cui gli Smiths avevano già attinto un altro fuoriclasse come Craig Gannon.

High Land, Hard Rain è il balcone che accoglie l’apertura delle imposte che danno sulla camera azteca e su Roddy Frame, il ragazzino che tradì David Bowie per Stevie Wonder, senza pentirsene mai.    

                                                                                    Franco “Lys” Dimauro

PETE ROSS & THE SAPPHIRE – Rollin’ On Down the Lane (Beast)

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Come Hugo Race, Pete Ross è un australiano che ha trovato in Italia la sua seconda patria. Come lui, un passato da comprimario (i Bad Seeds per il primo, i Broken Arrows per il secondo) troppo piccolo per contenere il proprio ego artistico. Come quello, la passione per i suoni scuri e baritonali del country e del folk-noir. Rollin’ On Down the Lane, registrato interamente in Italia, è un disco notevolissimo.

Se, sfortunati come me, avete conosciuto Pete Ross col suo esordio in proprio del 2008, sgombrate la mente da quell’abortito tentativo di coniugare la tradizione melodica e popolare italiana con la musica rurale americana. Fatelo e fatelo in fretta. Rollin’ On Down the Lane viaggia sui binari arrugginiti di Nick Cave (Pleased to Meet You, lo spaghetti-western di Devil Inside, la tenebrosa cover di Rake di Van Zandt) e Springsteen (la bellissima Corinne che vi farà venire il magone se avete amato dischi come Born to Run o The River, NdLYS), talvolta viziata da un’enfasi doorsiana (il singolo Devil Inside, la cover di Jesus Gonna Be Here) o bowiana (la splendida ballata per piano e voce che chiude il disco) che alimenta il carisma con cui Ross ha coperto queste “sue” nuove dieci canzoni, sempre sostenute da una misuratissima ed efficace base strumentale ad opera dei “geniali” De Rubertis e Rizzo e del francese Dimi Dero che si occupa anche della produzione del disco e che conferiscono all’ album quella aria sinistra e cinematica che mancava al pur pregevole Midnight Show dello scorso anno.

Quest’anno, per Natale, siamo a posto. Cominciate a tirar fuori le sciarpe.  

 

                                                                                      Franco “Lys” Dimauro

 

GRINDERMAN – Grinderman 2 (Mute)

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Sono tornato. Sono il lupo cattivo.

Ho fatto a pezzi tutto ciò che restava.

Non è rimasto in piedi nemmeno un filo d’erba. 

Lo vedi? Dietro di me più niente si muove.

Ho creato il deserto per poterti vedere meglio, perché niente intralciasse lo spazio tra i miei occhi venati di sangue e i tuoi splendidi occhi dove la bellezza ha macchiato la retina con ombre di nuvole in fuga.

Sono venuto e non resterò a lungo perché le mie mani sono veloci e il mio cuore affamato.

Mi siederò e ti svuoterò.

Non lascerò che il tuo guscio.

Perché tu sei tutto ciò che conta e io un ottimo contabile.

Mi trasformerò in tutto ciò che temi e andrò via urlando.

Siederò tra le ceneri della bellezza, nel giardino dove è appassito il mio amore e mi meraviglierò che non ci sarà più nemmeno la forma sgraziata della mia ombra a ripararmi dalle mie ossessioni.

Come un cervo abbattuto aspetterò che vengano a cercarmi e scriverò una canzone d’amore per te. Una terribile, deforme canzone d’amore.

Le darò una foggia raccapricciante perché nessuno le si avvicini.

Solo tu saprai che l’ho costruita per te.

Una capanna di fango e sangue nel mezzo del deserto del mio amore.

E la rivestirò di rumori e ghigni da lupo mannaro.

Un tempio dove gli ignobili come me vanno a morire col cuore gonfio di odio e di amore.

                                                           Franco “Lys” Dimauro


THE BO-WEEVILS – Anthology (Off the Hip)  

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Onestamente sconoscevo del tutto quanto pubblicato dai Bo-Weevils “Fase II”, ovvero dopo la separazione da Ian Hill e Stephen Anderson, i ragazzi di Melbourne che avevano edificato la band sulle macerie del classico garage punk e documentato dalle cassette e dai dischi su Kavern 7. Ben venga allora questa doppia antologia che certifica il periodo ‘89/’95. Quello che ne viene fuori è un suono vicinissimo alle acidità roots di Green on Red, Rain Parade e soprattutto Died Pretty (Middle of Nowhere veleggia dalle parti di Just Skin, ma i richiami alla band di Ronald Peno sono latenti un po’ ovunque NdLYS). Non male devo dire, soprattutto certe divagazioni velvettiane come Planetarium o Past Lives, lunghi raga di elettricità stagnante e rumorosa in cui la band ha modo di aggredire il proprio suono. Una raccolta assolutamente rivelatrice e necessaria.

                                                                                 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

THE DREADFUL YAWNS – The Dreadful Yawns (Bomp!)

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Esiste ancora una giovane America che guarda alla musica acustica con una sacralità e una dedizione incredibili. È il caso dei Dreadful Yawns di Cleveland. Secondo disco, ma primo a fregiarsi della storica griffe di Greg Shaw, da sempre appassionato di folk-rock storico. Ovvero gente come Fairport Convention, Buffalo Springfield, Skip Spence, Byrds. Non credo sia riuscito a sentire cosa i ragazzi hanno fatto per lui, ma credo ne andrebbe fiero dello srotolarsi di Get Straight: puro raga byrdsiano.

Lo squarcio bucolico di Waking Up to You è invece vicino ai quadretti rurali di Simon & Garfunkel mentre su Darkness Is Gone ecco materializzarsi lo spettro di Neil Young a cavallo, in fuga dalla polvere di Harvest. Ma il meglio arriva in fondo, col disperato noir di Lullaby e i 18’ di The People and the Sky, naufragio nel mare psichedelico di Grateful Dead e Velvet Underground. Bruciate pure i dischi degli Uncle Tupelo.

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

 

X – Wild Gift (Porterhouse Prime Vinyl)

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Il vostro alfabeto termina per Z. Il mio, per X.

In realtà termina un po’ dopo, con l’uscita di More Fun in the New World.

Ma termina lì, con quella croce che sigillò come un timbro di ceralacca la storia del punk californiano.

Quello raccontato da Penelope Spheeris e spesso anche su queste pagine. Oggi in parte tirato fuori dall’ex chitarrista dei Circle Jɘrks Greg Hetson per la sua label.

Che inizia da Wild Gift la serie di ristampe dedicate al catalogo degli X.

Cartone con busta interna e foglietto con i testi. In barba alle logiche ecologiste che ci vengono imposte dagli stessi fanfaroni che si rifiutano di firmare il protocollo di Kyoto.

Se sono riusciti a farvi sentire delle merde ogniqualvolta accarezzate un foglio di cellulosa, scaricatevi i vostri torrent. Gli altri si immergano pure in questa culotte di cartone per tirare fuori 180 grammi di plasticazza nera solcata dalla musica degli X.

Disperata e romantica. L’unica con la quale poteva capitarvi di uscire da un concerto con le lacrime agli occhi, prima di essere nuovamente inghiottiti dalle interiora della metropoli americana.  

Bello da accapponare la pelle.

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

 

DEPECHE MODE – Construction Time Again (Mute)  

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Il 17 novembre del 1983 dentro gli studi milanesi di Rete 4 ormai ad un passo dal diventare il terzo polo televisivo della Fininvest, si consuma l’ennesimo carosello di luoghi comuni e ironia sciatta firmata Mike Bongiorno. Tocca stavolta ai giovanissimi Depeche Mode far buon viso a cattivo gioco e cercare di dissimulare l’imbarazzo.

L’unico ad uscirne indenne è l’ultimo arrivato. Si chiama Alan Wilder ed è stato arruolato come semplice macchinista. Eppure al neo-assunto piace di tanto in tanto mettere le mani sul timone. E così i Depeche Mode si trovano un po’ alla volta su una rotta leggermente sfasata rispetto a quella prefissata, andando ad incagliarsi fra i rifiuti industriali che arrugginiscono sotto il pelo dell’acqua, salvandosi dalla banalità del solito giro in yacht dove gli idoli del new-romantic si abbronzano ad un sole che a stento riscalda. Construction Time Again è il disco che ridefinisce per primo il suono dei Depeche Mode, lavorando sulle timbriche (vocali e strumentali) e sulle tematiche che adesso puntano anche in maniera diretta al sociale e al politico, inaugurando un processo che darà il “prodotto finito” dieci anni dopo, spegnendo le luci una alla volta e diventando sempre più cupi e claustrofobici di disco in disco.

La percezione della mutazione in atto è tangibile in tracce come Pipeline, The Landscape Is Changing, Love, in Itself e soprattutto su Everything Counts, il primo pezzo a calibratura perfetta della band. Altrove, qualche idea ma pochissima sostanza e quattro facce da bimbo che devono ancora cercare il varco perfetto per accedere al mondo della credibilità artistica.

 

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro

 

THE DREAM SYNDICATE – Medicine Show (A&M)

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È il 1984 quando la A&M “fiuta” l’affare Paisley. I Dream Syndicate, gruppo-cardine  del ritorno alla roots-music che si respira nei primi anni Ottanta, vengono messi sotto contratto e chiusi in studio con un produttore di discreta fama (tra le sue produzioni ci sono i Pavlov‘s Dog, i Dictators e il discusso secondo album dei Clash, tra l’altro) e di buona inventiva lessicale (a lui pare si deva il termine “heavy metal” così come il moniker dei Blue Öyster Cult, NdLYS) come Sandy Pearlman che però, grazie al cielo, fallisce il tentativo di rovinare del tutto la musica del gruppo di Steve Wynn plasmandola alle leggi del mercato secondo le indicazioni della major. Questo perché i Dream Syndicate di Medicine Show sono ancora una band che, pur avendo accusato il primo grande colpo (la defezione di Kendra Smith, che andrà a formare gli Opal), sa scrivere grandi canzoni. Polversose, epiche, nervose, taglienti, figlie di quell’epopea dei grandi perdenti che abitavano i dischi di Neil Young, Lou Reed e Bruce Springsteen. Quella che ne esce più visibilmente malconcia è Armed with an Empty Gun, ammaccata da una batteria sovrappeso, bardata con una chitarra col gain sbagliato, goffamente appesantita da cori barricadieri. Tutto il resto mantiene una dignità pari a quella dei dischi precedenti, anche se è completamente evaporata quell’elettricità abrasiva figlia dei Velvet e dei Television che aveva generato le epilessie di Halloween o Some Kinda Itch. Il campo pestato dai Syndicate è piuttosto il rock muscoloso e sudaticcio per charros tormentati dall’apologia del selvaggio West e con le narici ingolfate dallo sterco dei buoi (Still Holding on to You, Daddy‘s Girl, Bullet with My Name on It), la ballata polverosa (Burn col piano cristallino di Tom Zvoncheck e i cori precisi dei Long Ryders e il pathos da terra di frontiera evocato dall’inarrivabile Merritville) e la jam chitarristica orfana dei Quicksilver e dei Crazy Horse (Medicine Show e la lunga John Coltrane Stereo Blues diventeranno dei classici irrinunciabili dei loro live-show), da sempre una delle “smanie” della band. 

Quindi, paradossalmente e a sorpresa, la discussa scelta di Pearlman al banco regia si rivela efficace: Sandy effettua un drenaggio necessario all’interno del suono del gruppo ripulendo gli interstizi dalle ultime scorie new-wave di cui pure Wine & Roses era in qualche modo “infetto” (un pezzo come Then She Remembers era autentico delirio post-punk, per tacere delle linee di basso che avvelenano tutto il disco o il gorgheggio cafone di Until Lately). Ecco perché, ancora oggi, se dovessimo definire il Paisley Underground usando un solo album a paradigma, Medicine Show sarebbe il primo titolo a venirci in mente. È la canonizzazione di un genere, l’album dei ricordi del roots-rock americano, una sagoma da tiro al bersaglio abbandonata in qualche ranch devastato da cowboys senza troppi scrupoli e con troppe cose da dimenticare. 

                   

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

 

THE JAM – This Is the Modern World (Polydor)

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Con il secondo album, Paul Weller e i Jam cominciano a giocare con la parola Mod. Lo faranno anche col disco successivo, All Mod Cons, rendendo manifesti i punti di riferimento e di contatto con la scena mod storica di Who e Small Faces.

Anche lo scatto di copertina, realizzata sotto il ponte al Nord di Kensington con un paesaggio urbano come sfondo è un omaggio palese allo stile classico del movimento, con la celebre maglia con le frecce che Paul Weller ha comprato dopo averne vista una simile addosso a Pete Townshend.

Un album influenzato dal punk (All Around the World, capolavoro punk uscito a cavallo dei primi due album, incluso solo nella versione americana di This Is the Modern World, vibra di echi barricadieri alla Clash e tra i solchi del disco fa capolino una pernacchia in perfetto stile Sex Pistols) e dall’amore (in quei giorni si sta consumando l’incontro ormonale tra Paul Weller e Gill Price) che vedono Paul alle prese con le prime, sommarie, canzoni d’amore (la sequenza I Need You, Tonight at Noon, Here Comes the Weekend). Il risultato è un album dal giusto equilibrio tra la rabbia del debutto e i dischi più miti della seconda stagione che fa emergere anche le qualità di autore di Bruce Foxton (che aveva debuttato come tale con Carnaby Street, omaggio alla celebre strada di Londra dove Mary Quant aprì la sua famosa boutique, nell’aprile del ’77) qui autore della nervosa London Traffic e della elaborata Don‘t Tell Them You‘re Sane.

Un album che, nella furia cieca e accecante dell’anno chiave del punk, era prevedibilmente destinato ad essere poco compreso da gran parte della critica e che forse proprio per questo, con lungimiranza e faccia da paraculo, Weller decide di aprire con la frase I don’t give two fucks about your review.

Credo non gli importi un cazzo neppure della mia.

E ha perfettamente ragione.

                                                                                                Franco “Lys” Dimauro