MADNESS – One Step Beyond… (Stiff)

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Se eri adolescente negli anni ‘80 non potevi sottrarti alla follia idiota dei Madness.

Cominciata con la demenza di un ballo a passo d’anatra e finita con alcune pagine classiche del pop britannico.

I primi due dischi sono quelli legati al periodo ska, e questo lo sapete.

Meglio il secondo (Absolutely) del primo, aggiungo io. Più convincente e meno didascalico.

E poi, va be’, One Step Beyond (il pezzo) io non l’ho mai sopportato.

Ma credo che ognuno abbia la sua canzone dei Madness da odiare.

Eppure, nonostante lo snobismo di cui spesso la band è stata vittima, è storicamente scorretto tacere di come il loro storico debutto, One Step Beyond…, portò una ventata d’aria fresca nell’Inghilterra del dopo-punk.

I puristi non hanno mai perdonato alla band di Camden Town i flirt con le classifiche (dove avrebbero sempre battuto gli amici/rivali Specials, NdLYS) e nemmeno quell’aria disinvolta e un po’ bizzarra di chi fa le cose più per diletto che per fede. Invece, nonostante da quel 1979 di cose ne siano passate tante sui nostri piatti diventando coriacei a tutto, il nutty sound di One Step Beyond… continua a masticare insolente le suole delle nostre scarpe.

 

One Step Beyond…, con tutto il suo carico di pennate in levare, di fiati rigogliosi, di ritmi che sembrano strappate ad una versione a cartoni della saga di Tarzan e di buffi passi di danza rivela da subito i Madness come il miglior antidoto alle ansie depressive della new-wave più cadaverica ed esistenzialista dell’Inghilterra del dopo punk. Roba che ti illude di poter uscire sotto la pioggia senza bagnarti. Passando attraverso le gocce, muovendosi goffamente a passo d’oca. Facendo dell’ombrello un accessorio esclusivamente estetico, come quello esibito da Mike Barson a mo’ di bastone proprio sulla copertina del successivo Absolutely.

Una bacchetta magica anziché uno scudo.

Ora esco a fare due passi.

Anzi, uno.                                                                                 

                                                                               Franco “Lys” Dimauro

THE WHO – Quadrophenia (Track)

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Nel 1973 gli Who danno l’estremo saluto al mondo dei mod, con la prosopopea e la solennità che li contraddistingue ormai da qualche anno, giocando con tutti i luoghi comuni della comunità mod inglese: gli scooter, i parka, la spiaggia di Brighton, le anfetamine, le giacche sartoriali (oltre che a un nemmeno tanto subdolo momento di autocelebrazione delle proprie origini su Cut My Hair, dove viene ripreso e riadattato parte del testo della Zoot Suit del loro primissimo singolo, NdLYS).  

Una nuova opera rock, dunque. Che stavolta suona quasi come un monumento funebre a quello che gli Who avevano rappresentato e che adesso si erano stancati di rappresentare. Ma, in maniera forse più celata, un escamotage artistico per manifestare la schizofrenia che si è impossessata della band.

Jimmy Cooper, in realtà, non è altro che lo stesso “corpo” degli Who.

I quattro profili schizofrenici che ne dilaniano la personalità, non sono altro che le peculiarità di ogni singolo componente del gruppo. Ognuno sempre più distante dagli altri, ognuno già impegnato a costruirsi un’identità artistica indipendente. Il clima in cui viene generato Quadrophenia è infatti uno dei più turbolenti della storia della band inglese, con un Keith Moon sempre più folle e sempre più stranito e Pete e Roger che se le danno di santa ragione.

Presentato in una confezione grafica esemplare con trentasei scatti in un bianco e nero post-industriale realizzati da Ethan Russell tra Londra, Brighton, Cornwall e Goring, Quadrophenia è il risultato della scrematura di quindici ore di registrazioni e di cinquanta canzoni che nell’idea originale avrebbero dovuto occupare ben otto facciate di vinile, concepite secondo la rivoluzionaria tecnica quadrifonica che avrebbe amplificato il concetto di separazione e di fusione alla base del disturbo dissociativo di identità che rappresentava il leit-motiv dell’opera.

Un progetto mastodontico ridimensionato in un doppio album con diciassette canzoni che si apre con lo scrosciare delle onde del mare che si rifrangono sugli scogli di Brighton, una registrazione ambientale catturata dallo stesso Townshend su un registratore a nastro in omaggio alle origini della band che proprio nell’acquario della cittadina inglese aveva tenuto i primissimi concerti, dieci anni prima.

Le brevissime sequenze melodiche che le vengono sovrapposte rappresentano le quattro “facce” degli Who, poi via via rielaborate lungo il corso del lavoro singolarmente (Helpless Dancer, Doctor Jimmy, Bell Boy, Love Reign O’er Me) o organizzate in mini suite strumentali come Quadrophenia o The Rock.

La location è la stessa della scena iniziale del film che ne verrà tratto sei anni dopo e che ne rappresenta l’epilogo con la distruzione dello scooter e, quindi dell’illusione del sogno mod del protagonista attraverso il suo simbolo-chiave, rappresentato in copertina nello splendido, iconografico scatto di Graham Hughes.

Il mare, che torna protagonista su larga parte del secondo disco (Sea and Sand, The Rock, Drowned, Love Reign O’er Me), rappresenta tuttavia non la semplice distruzione di un sogno ma solo della sua natura effimera, volendo invece simboleggiare una elevata rinascita mistica (con ovvi riferimenti all’“Oceano d’Amore” con cui Maher Baba amava descrivere se stesso, NdLYS).

Musicalmente, lo stile degli Who non cede alle facili lusinghe di un passato glorioso continuando il suo inarrestabile percorso di sperimentazione con la costruzione di musiche elaborate e complesse che corteggiano l’elettronica e le orchestrazioni senza tuttavia diventare cerebrali o impenetrabili.

Il lavoro di Entwistle al basso raggiunge vette espressive e virtuose da capogiro, fungendo da insostituibile collante tra le chitarre di Townshend e le pelli di Moon mentre Roger Daltrey conferma lo stile vertiginoso inaugurato con Tommy.

Quadrophenia chiude, forse anche consapevolmente, la sequenza dei dischi fondamentali degli Who. Dagli scogli di Brighton viene dato in pasto alle onde il passato, il presente, il futuro di una delle più belle storie della musica rock inglese.

  

                                                                                    Franco “Lys” Dimauro  

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STAN RIDGWAY – Neon Mirage (A440)

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Da qualche anno non riesco più ad immaginarmelo all’impiedi.

Stan Ridgway affiancato da sua moglie e circondato dai suoi musicisti, seduto tra vibrafoni, armoniche blues, chitarre folk, fisarmoniche, flauti traversi e marimbas.

È così che lo immagino.

Ridgway non è più quello che era una volta.

Nessuno lo è, fatta eccezione per Rudi Protrudi, Pippo Baudo e me.

Suppongo viva una vita benevola, appena fuori dal centro abitato. In una di quelle ville dove il legno ha bisogno di essere tinteggiato ogni due anni perché conservi quel bianco-ambulatorio e il giardino richiede non solo il pollice verde ma anche l’operosità delle restanti dita.

Tra una pennellata allo steccato e una potatura ai cespugli di rose lo immagino salire in soffitta, imbracciare la sua chitarra preferita, sedersi su una panca fatta col legno del ficus che ha dovuto sradicare tre anni prima per far largo al nuovo abete e raccontare qualche storia.

A Stan piace raccontare storie.

Lo ha sempre fatto e lo ha sempre fatto egregiamente.

Sa raccontare i dettagli che nessun altro vede.

Come quando passa una bella donna per strada e, mentre tutti commentano la forma del suo culo, Stan invece ci racconta il dettaglio della cucitura dei suoi pantaloni satinati o il numero di passi che ha regalato al marciapiede prima di allontanarsi seguendo il suo sogno che nessuno, tranne ancora una volta Mr. Ridgway, sembra aver colto nel suo passo deciso.

Spesso qualche storia finisce su disco.

E dal disco dentro un pacchetto di file.

E da un pacchetto di file dentro una piattaforma per file multimediali.

E da questa piattaforma dentro una porticina USB.

E da questa porticina su un supporto compatibile.

Poi, se ne perdono le tracce.

La musica di Stan Ridgway è a quel punto in ogni parte del mondo.

Le sue storie, storie per tutti.

E puoi immaginarti di stare in soffitta con lui, a rassettare i suoi attrezzi per il giardinaggio mentre lui, alle tue spalle, ti suona un pezzo di Dylan (Lenny Bruce), una bossanova mariachi (Desert of Dreams), uno scarto di musica western che deve essergli avanzato dai tempi dei Wall Of Voodoo (Neon Mirage), una ballata noir che pare rubata ai Morphine (Turn a Blind Eye), un reggae da confine texano (Flag Up On a Pole), una Day Up in the Sun ciondolante come un pezzo dei Crash Test Dummies o un quasi-Santana come Scavenger Hunt che solo la sua voce e la sua armonica riescono a salvare dal salto nel baratro delle banalità.

Poi Stan guarda giù dalla finestra.

C’é un corvo rimasto intrappolato tra i rami di un albero di pino.

Stan scende e lo va a liberare.

Domani avrà quest’altra storia da raccontare.

E anche se magari sarà noiosa come la Behind the Mask che scorre per sei minuti strazianti quasi in chiusura di questo Neon Mirage sai che ascolterai anche quella, anche a costo di socchiudere gli occhi.

Purchè zio Stan ti rimbocchi le coperte.

                       

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro 

 

SAM THE SHAM AND THE PHARAOHS – The MGM Singles (Sundazed)

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Avercene di gruppi così, oggi, porca miseria.

Turbanti in testa e sorriso stampato in faccia come dei cartoni animati.

I Pharaohs erano una delle combriccole più liete di tutti gli anni Sessanta.

Nati per fare festa, o per partecipare alle vostre con gli scioglilingua più dementi dell’epoca: The Hair on My Chinny Chin Chin, Wooly Bully, Ring Dang Doo, Ju Ju Hand. Idioti e micidiali, con quella loro mistura di tex-mex, beat, R ‘n B, doo-wop. Per la MGM incasellano 15 singoli per la prima volta raccolti tutti assieme, fronte e retro. Il che fa un’ora e tanticchia di spasso tra lampi di genio (Black Sheep e How Do You Catch a Girl restano due pezzoni, c’è poco da discutere, NdLYS), parodie spectoriane (il singolo delle Sham-ettes) e qualche ruzzolone nella più banale novelty song (Yakety Yak). Niente che non rientri nel piano programmatico della band: divertire e mandare in culo la canzone di protesta. Perché va bene Dylan, va bene Hemingway, va bene Jim Morrison, va bene Stephen Stills e va bene pure Joan Baez ma a voi non viene mai voglia di leggervi un sano giornaletto di Topolino?  

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

 

VIOLENT FEMMES – Why Do Birds Sing? (Reprise)

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Nonostante anche Victor DeLorenzo si sia nel frattempo tolto lo sfizio del disco solista, all’inizio del nuovo decennio i Violent Femmes tornano con un nuovo album che conferma il ritorno alla formula elementare inaugurata da 3, malgrado si conceda qualche arrangiamento più ambizioso che contempla violini, organo Hammond, tabla, ukulele, harmonium e tastiere in parte suonate dal terzetto, in parte da altra gente coinvolta nel nuovo disco.

A mettere scompiglio tra le frange dei vecchi estimatori del gruppo stavolta ci pensa la cover di Do You Really Want to Hurt Me? dei Culture Club risolta da Gano e soci in chiave acustica e spogliata dall’originale abito reggae e rattoppando con un divertente borbottio il ponte dub del pezzo originale. Esperimento riuscito a metà ma che era meglio evitare.

A rassicurare lo stesso pubblico ci pensa invece l’ennesima ripresa dal vecchissimo repertorio del gruppo, quella Girl Trouble che compariva già sulla loro prima demo.

La follia degli esordi pare tuttavia cedere ancora una volta il passo ad una banalizzazione del suono (il terribile assolo elettrico che chiude il call-and-response di Hey Nonny Nonny, il mantello di archi di Used to Be, la Life Is a Scream che prelude ai disastri di Rock!!!!!, il boogie di More Money Tonight, NdLYS) che tende ad appiattire anche gli scorci più vicini alle smorfie folk-punk degli esordi (Flamingo Baby, Look Like That, Lack of Knowledge, I’m Free) riducendoli a una facile parodia di se stessi e dell’“american music” in generale, come voleva la nuova etichetta del gruppo.

Peccato che, nel congratularsi con Brian Ritchie per il materiale nuovo, il presidente dell’etichetta continui a chiamarlo Gordon. Quando si diventa dei numeri, succede.

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

REMO REMOTTI – Canottiere (ConcertOne)

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Ognuno ha il suo filosofo preferito.

Socrate, Engels, Marx, Platone, Machiavelli, Kant, Shopenhauer. Ad ognuno il suo.

Il mio è Remo Remotti.

Perché è spiccio, schietto, anche brutale. E parla di cose talmente vere che ti pare di vedertici dentro, come uno specchio dei nostri tic, delle nostre manie, delle nostre ossessioni, delle nostre paure.

Il sesso, il tempo, la guerra, la mamma, le donne, la proprietà privata, la televisione, le perette (“era così che mia mamma me lo metteva nel culo. Anzi, nel culetto”), i Tampax, le seghe.

Remo nasce borgataro ma diventa subito artista a tutto tondo. Pittore, scultore, attore, poeta, e…canottiere. A farlo diventare “cantante” ci pensano due “non musicisti” come Emilio Loizzo e H501, in arte Recycle. È il 1997 e lui ha incontrato un po’ di gente, nella sua vita sregolata che ha già visto più di settanta capodanni: Nanni Moretti, i fratelli Taviani, Nanni Loy (del quale sposò la moglie Maria Luisa nel 1960, NdLYS), Carlo Verdone, Marco Bellocchio.

Recycle è dunque il barcone dentro cui Remo si nasconde per sbarcare sulle spiagge delle nuove generazioni. Lo fa da clandestino, senza averne consapevolezza eppure (Mamma) Roma Addio, uno dei suoi monologhi più celebri, sbarca nei club facendo diventare Remotti un personaggio di culto anche per il popolo alternativo che in quegli anni sta riempiendo le sale attirata dalle nuove musiche digitali, il trip-hop, il big beat, la jungle. Il tappeto elettronico steso sotto le imprecazioni di Remo sono perfette per fare breccia. Il Remotti cantante nasce lì.

Il suo primo disco esce tuttavia molto dopo, a ottanta anni suonati, raccogliendo 21 frammenti dei taccuini zeppi delle sue osservazioni sul mondo, su se stesso e sugli altri. Il pezzo con i Recycle è, ovviamente, il “singolo”, l’apripista. Ma quello che segue non è da meno, anche se ad accompagnarlo sono altri, ovvero la fida chitarra di Paolo Zanardi dei Borgo Pirano e il sampling di Giorgio Spada.

Ci sono momenti esilaranti. E, ovviamente, geniali. Come Sesso e matematica dove, con due calcoli facili facili, si rivaluta il valore specifico delle seghe. Non quelle dei falegnami, quelle di tutti gli altri. Oppure Professionismo e non, dove si ridistribuiscono gli spazi tra lavoro ed hobby. Tra chi puttaneggia per l’uno e chi lo fa per l’altro. Tutto giocato con un’abilità linguistica e arricchito da un uso del paradosso creativo, acuto, ingegnoso.

Anche quando si lambisce il territorio della parolaccia, non si tocca mai il triviale di bestie come gli Squallor. Perché è l’onestà politicamente scorretta di Remo a galleggiare su tutto, il suo sapore autentico da barbone un po’ coatto.

Come quelli che per un dollaro ti raccontano una barzelletta per le strade di New York. Solo che Remo te la racconta con tutta la forza espressiva tipica del romanaccio un po’ boccaccesco e, come quando ti alzi da Cencio dopo esserti sorbito per trentavolte che sei un procione e la dama che ti siede accanto una bocchinara, alla fine sei pure contento di pagare.

Poi ci sono le amare ma sempre aguzze e riflessive dissertazioni di Vita e morte e Tempo (“voi correte…ma dove correte? Non sapete dove andare, e ci volete arrivare di corsa?”) e un mare di brani ispirati o dedicati alle sue donne, reali e presunte: Silvana, Mia, Rosa, Rossella, Antonella, Barbara o la Marcella di Tampax d’artista e qualche variazione sul “tema principale” come Me ne vado dalle cattive notizie, La mamma e Me ne andavo da Roma. Oppure la bella visione artistica di Noi non riusciamo più a vedere.

Se state preparando il vostro consueto pacchetto di dischi da viaggio, lasciate a casa le pernacchie digitali dei Radiohead e le chitarre tritaballe dei Naam che tanto dopo venti minuti vi viene il voltastomaco, e mettete un disco che può farvi veramente compagnia. Dentro l’abitacolo e dentro la vostra pancia.

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

DEVENDRA BANHART – Niño Rojo (Young God)

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Essenziale e spartano, con un’androginia non sbandierata ma che marcia sottopelle, insinuandosi con lo stesso diafano timbro di un Marc Bolan che, smessi i panni di rockstar, è tornato a cantare morbide ninne nanne psichedeliche. Così si conferma Devendra in questo disco, ancora una volta “vestito” dei suoi disegni dalle tinte legno e cartone e, di nuovo, registrato con la stessa semplicità con cui portava i suoi pezzi in giro per il mondo, chiusi nella cassa acustica della sua chitarra, prima di liberarli come colombi per le strade del Texas o del Venezuela. Quella stessa aria trasognata che aveva fatto innamorare Michael Gira e fatto girare i coglioni a Sammy Hagar. E che ha fatto di Devendra una delle poche star credibili nel circuito indie della prima metà di questo decennio.

È lui l’ideale figlio dei folletti passati sui ciottoli del nostro bosco incantato: Syd Barrett, Roky Erickson, Daniel Johnston, Roger Wootton, Marc Bolan, Nick Drake, Robyn Hitchcock, Donovan. Ma le passioni del nostro si spingono in realtà ben oltre, soprattutto verso il mondo di piccole folksinger dimenticate come Vashti Bunyan, nei primissimi anni 70 autrice di uno struggente album acustico supervisionato dallo stesso team che seguiva le mosse di Nick Drake e che proprio grazie alla “pubblicità riflessa” di Devendra tornerà ad incidere, dopo 35 anni di assenza.

Un intero mondo in realtà si schiude dopo l’esplosione del fenomeno Banhart: dimenticati bauli di folk americano e inglese dei primi del secolo vengono riaperti e dati in pasto alle masse.

Lui è il nuovo Messia del folk rurale, è il Dio che apre le acque dell’indie rock per farci passare dentro una folla di hobos e buskers che credono nello stesso Testo Sacro: Jana Hunter, Joanna Newsom, Vetiver, Diana Cluck, Troll, Jack Rose sono alla guida del popolo New Weird. Strettamente legato, non solo per simultaneità temporale, al suo altro disco del 2004, Niño Rojo vive di queste piccolissime cose, affascinando grandi e piccini con i girotondi e i carillon di Wake Up Little Sparrow, Little Yellow Spider, Sister o HorseheadedfleshWizard.

È il Devendra più dimesso e discreto, sofficemente allucinato e per nulla ambizioso, prima della parziale “svolta” di Cripple Crow.

È bello sapere che mentre chiudiamo gli occhi lui è lì, nell’angolo della nostra stanza, a suonare per lui e per noi le sue filastrocche sghembe e stonate.

 

                                                                                  Franco “Lys” Dimauro

 

THE ROUTES – Left My Mind (Motor Sounds)

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Così dovrebbe essere ogni disco di vero garage-punk: suonato come se ci si stesse bruciando il culo sopra una piastra di ghisa. Urgente e strafottente.

Con un piede nel torbido piscio degli Yardbirds e gli occhi puntati sotto le gonne delle groupies, dopo un pomeriggio passato a guardare i cartoni in tv e a ingurgitare bibite alla frutta. Volumi al massimo, riverbero massacrante, demenza puerile.

Come il primo Gruesomes o Wylde Mammoths.

O John Lennon’s Corpse Revisited dei Mighty Cæsars e I Know You Fine dei Gories.

Da noi lo fanno ancora i Rippers, i Tunas o i Pussywarmers.

In Giappone lo fanno i Routes.  

Se vi state chiedendo se ha ancora un senso ascoltare una band che suona come i Wailers o i Downliners Sect OGGI, la mia risposta è: SI.

E lo ha perché quando tutti si affanneranno a chiedersi perché il rock di oggi suoni così irrimediabilmente spento, saranno gruppi come i Routes a dare una risposta.

                                                                                   Franco “Lys” Dimauro