DINING ROOMS – Subterranean Modern # 1 (Milano 2000)

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Facile, troppo facile farsi suggestionare dai nomi di Ghittoni e Malfatti, tornare con la mente a Party Hollywoodiani e Afterhours consumati in una Milano che guardava all’America per trovare la sua identità di città fantasma, metropoli col cuore perso da qualche parte in quei tunnel metropolitani che le avevano ripulito le viscere e sgombrato l’anima. I tempi sono cambiati, ci ricordano i Dining Rooms, e Subterranean Modern è il suono della Milano di oggi, la Milano città d’Europa, cancello automatico a ponte vacillante di un Mediterraneo che guarda a Bruxelles, la Milano nodo del mondo che verrà, la Milano capitale d’Italia suo malgrado, la Milano dalle vetrine accecanti e delle donne in carriera, dei metrò iperveloci e dei McDonald’s® sovraffollati, dei serpenti di tangenziali che non portano da nessuna parte, la Milano dove si fanno le sfilate, dove si fanno i talk show, dove si fanno le tendenze. La Milano dove si fanno.

La Milano da brivido narrata dal Gaber in fuga dalle sue stesse paure (Occhi neri), popolata dalle tribù di fin du siecle (Hip Hop Hippies), avvolta dalle tende di nebbia che salutano il mattino (Le Crepuscole du Matin), la Milano dallo spleen infinito (Triste, solitario y final) che sa di sangue rappreso e bile.

La colonna sonora di una Las Vegas da terra di nessuno fatta di luci al neon, ventiquattrore che collidono sui gradini dei tram, fari che illuminano cosce d’ebano esposte lungo i viali e mascherine anti-smog.

Stefano Ghittoni e Cesare Malfatti hanno clonato l’anima stuprata della Milano preapocalittica, e questo è il risultato.

 

Franco “Lys” Dimauro

 

THE (INTERNATIONAL) NOISE CONSPIRACY – A New Morning, Changing Weather (Burning Heart)

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Chissà se il provvedimento post-11 settembre che ha di fatto bloccato la radiodiffusione di centinaia di canzoni accusate di essere fuorvianti in ottica terroristica toccherà anche gli (International) Noise Conspiracy. Di certo i sermoni lanciati da Dennis e soci sono quanto di più politicamente lucido si sia ascoltato negli ultimi due anni. Altro che le presunte superiorità culturali dell’Occidente sbandierate dal nostro Presidente del Consiglio….

Testi che andrebbero bene per una hardcore band e che invece ancora una volta il gruppo svedese lascia macerare su una base di chiara impronta sixties. Il suono dei Noise Conspiracy non è, sia chiaro, assimilabile a quello delle classiche revival-bands eppure è evidente come il legame estetico e musicale con le bands di 35 anni fa sia forte e saldo più di quanto Survival Sickness ci aveva rilevato un annetto fa. A New Morning nasce in un momento cruciale. Dopo le feroci lotte no-global e il devastante scontro Est-Ovest ed è quindi figlio del suo tempo.

Musicalmente più centrato rispetto al disco di esordio, meno furioso o perlomeno dominato da una furia controllata, mirata, calibrata. Segno che il gruppo ha lavorato sodo per centrare l’obiettivo, affinandosi in coesione e smussando certe sbavature residue.

Ne siano d’esempio i fiati che danno un groove così sexy ad un pezzo come Bigger Cages o il tappeto di distorsioni che si stende sotto i proclami di Last Century Promise, tra i vertici di un disco intriso peraltro dei soliti umori garage (il singolo Capitalism Stole My VerginityNew Empire Blues), di fragorosi gospel (A Northwest PassageBorn into a Mess) e di riottosi anthem figli degli MC5 (Breakout 2001Dead Language of Love, A New Morning).

 

                       Franco “Lys” Dimauro

 

 

BUILT TO SPILL – There Is No Enemy (ATP Recordings)

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La sufficienza piena l’hanno sempre meritata, i Built to Spill. Applicazione e metodo hanno dato risultati che molti loro coetanei si sognano.

There Is No Enemy, settimo album messo in fila dal ’93 ad oggi, impenna la media riuscendo ancora nell’incanto di prendere le melodie dei Dinosaur Jr e gonfiarle di elio prima di liberarle nell’aria. L’incanto di far sembrare leggeri pure i mammuth.

O i dinosauri, appunto.

La scrittura di Doug Martsch ha raggiunto lo status di classico. Come quella dei R.E.M. o di J Mascis, ancora una volta. O come quella di Neil Young, vecchia ossessione del gruppo americano. There Is No Enemy suona infatti familiare, come quei visi in cui ti imbatti per strada e sei certo di aver già incrociato altrove.

Ogni canzone, un volto già visto. E che rivedi ogni volta con piacere: Aisle 13, Life‘s a Dream, Things Fall Apart, Hindsight, Pat.

Ogni canzone un viso, ogni viso un abbraccio, ogni abbraccio un sorriso.

Come l’innamoramento.

Solo, con meno dolore.

                                                                                            Franco “Lys” Dimauro

 

THE MOVING SIDEWALKS – Flash (Akarma)

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Prego Signori, inginocchiarsi al cospetto di uno dei capolavori della storia della musica americana. Non un semplice disco di psichedelia blues texana ma l’apice dell’arte visionaria al servizio di un suono corposo, maschio, quadrato. Non frettolosamente il primo disco di Bill Gibbons, barbalunga da Mangiafuoco negli ZZ Top ma l’esordio di un chitarrista secondo solo a Jimi Hendrix per la potenza lisergica con cui si vincolava e svincolava dal blues celebrandone il rito catartico ma allo stesso tempo sforzandosi di renderlo “altro”.

Dopo aver dominato a Houston e in tutto il Texas con un brano destinato a diventare una palestra attrezzata per i combos neopsichedelici degli anni Ottanta grazie al suo volgersi serrato e battente, i Moving Sidewalks si chiusero in studio per registrare il loro grande capolavoro: Flash è un disco che ti fa ancora tremare il culo, un pallone nero che sfonda la porta con una Flashback che ripercorre gli stessi vicoli fuzz-oriented degli esordi, che dribbla le astuzie hendrixiane là dove Pluto-Sept 31st accende il “fuoco” o quando in Crimson Witch si diverte a carambolare sul blues ammaccandone i bordi, che celebra lo stomp fangoso del Delta allungando il collo al blues in Joe’s Blues e che infine si chiude in cortocircuito sulle spire acide di Eclipse/Reclipse. L’attenta ristampa Akarma recupera l’artwork originale nella rarissima copertina gatefold e aggiunge un secondo vinile contenente i cinque singoli del biennio 68/69 (99th FloorAre You Going to DoNeed MeEvery Night a New Surprise, I Want to Hold Your Hand) andando così ad eguagliare per contenuti la ristampa Afterglow del 1993.

In attesa di stringere tra le mani quella che viene annunciata da tempo come la ristampa definitiva dei Sidewalks con tanto di inediti e alternate demos già in fase di lavorazione per la siciliana No Tyme, è d’obbligo scaldarsi le falangi con questi due padelloni da 180 grammi.

 

Franco “Lys” Dimauro

 

 

PERE UBU – Terminal Tower (Get Back)

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Se mi chiedessero quale sia stata la più bella sequenza di singoli della storia della new wave non esiterei a fare il nome dei Pere Ubu.

Fin da quando vennero fuori, al giro di boa degli anni 70, e finanche al pur trascurabile Pennsylvania del ’98, i Pere Ubu sono stati talmente avanti e talmente fuori da non essere uguali a nessun altro che non a se stessi. E neppure tanto.

Molte saranno invece le bands che al genio del gruppo di Cleveland guarderanno con dovuta riverenza e devozione. Culto.

Credo pure non ci sia migliore rappresentazione sonora dell’apocalisse urbana, del delirio spettacolare e massmediatico del XX Secolo, dello sdoppiamento umano che ha prodotto perfette macchine da lavoro e feroci, spietati criminali che non siano The Modern Dance o Dub Housing. Ecco perchè, piuttosto che le asettiche stereofonie interstellari dei Pink Floyd, dovrebbero essere le tubercolotiche e deformi epilessie dei Pere Ubu a venir sparate nello spazio come delle Laika ammalate di cancro e venir date in pasto ai marziani per disegnare un’immagine verosimile dell’uomo e delle sue devianze, delle sue disomogenee alternanze di luci e ombre.

Terminal Tower fu pubblicata nel 1985 da Rough Trade e ristampata in cd dalla Cooking Vinyl nel 1998. Get Back ristampa ora su vinile e dentro una bella copertina apribile quella raccolta di singoli che raccoglie alcune delle più psicotiche masturbazioni del gruppo di David Thomas. Dalla desolazione post-atomica di 30 Seconds Over Tokyo al singhiozzo voodoo di Heart of Darkness, dal reggae apocalittico di Heaven alle folate di elettricità algida che percorrono Final Solution

“Merdre!!!” esclamerebbe l’Ubu Roi. E noi non potremmo non essere d’accordo con lui.

                                                                                                     Franco “Lys” Dimauro

AA. VV. – CBGB’s and the Birth of U.S. Punk (Ocho)

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Tra le pagode votate al culto del rock ‘n’ roll il CBGB’s di Hilly Crystal fu quella che, più di tutte, può essere eletta a simbolo di un’intera epoca. Fu tra quelle mura schiacciate dal peso del Palace Hotel, al 315 della Bowery newyorkese che si consumò la stagione più fertile del punk della Grande Mela consegnando alla storia nomi come Blondie, Ramones, Dictators, Television, Talking Heads, Heartbreakers. Insomma, la gentaglia che conoscete.

Gente che su quel palco e tra le macerie graffitate di quei cessi pensava più a spaccarsele che a farsele, le ossa. E che non necessita di nessun preambolo.

CBGB’s and the Birth of U.S. Punk è un tributo non tanto alla sua storia ma soprattutto alla sua “idea” di rock ‘n’ roll: eccessivo, sboccato, esplicito, potente. Eversivo.

È quindi naturale che dentro non ci sia solo quella Blank Generation che imbrattò realmente di sangue e sperma quelle mura ma un po’ il succo orgasmico di quello che è stato tutto il punk americano: Pere Ubu, Stooges (con una primitiva version di Shake Appeal a suo tempo pubblicata su Bomp!), Sonics, Dead Boys, 13th Floor Elevators, Seeds, Electric Eels, Dead Kennedys, ecc.

Bellissima la versione originale di Judy Is a Punk e commovente la bella foto di Joey Ramone che sovrasta le nostre vite, giovane per sempre.

Franco “Lys” Dimauro

GINA – Segreto (Il popolo del blues)

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Se ne parla un po’ ovunque ed è giusto che un disco di debutto come questo trovi rifugio anche tra le pieghe di queste pagine. Nato in totale autoproduzione, si è portato a casa il trofeo del Premio Ciampi 2008, che è un po’ il tapiro d’oro della musica d’autore italiana. Perché mentre sul palco di San Remo si brinda alla mediocrità della musica italiana e si vestono abiti tronfi e importanti, a Livorno sono i calici del mosto selvatico che si sfregano l’un l’altro miagolando sotto musiche che hanno il turbamento infame e malinconico della morna e il fascino del gusto artigiano di scolpire la propria anima come se si stesse dando forma a una bolla di vetro.

Ristampato ora in forma “ufficiale” da Ernesto De Pascale per la sua etichetta, Segreto potrà adesso contare sulla distribuzione e sul fregio del marchio Materiali Sonori e arriverà nei salotti buoni e un po’ snob della gente perbene italiana.

E spero gli bucherà i copridivani e gli sporcherà i tappeti pregiati.

Perché Segreto è un disco infame e bastardo.

È un disco che stilla veleno con un fascino malizioso e sensuale. È una deriva del tango. Non quello banalizzato da un Iglesias di turno ma quello che muta forma alle curve del corpo, ne inumidisce le mucose e rende turgidi i polpacci.

È un disco profondo, che ti inghiotte. E ha questo vorticoso mulinare di vapori che è la voce di Gina Fabiani, capace di spingersi “dentro” la musica come se le appartenesse. Non una gola al servizio della musica, ma un mantice che si schiude per lasciare uscire un ectoplasma di quel mostro sonoro che la abita dall’interno, capace di solcare maestosamente lo scarno abbozzo strumentale che spesso gli ottimi Daniele Bazzani e Lorenzo Feliciati le concedono.

Una canzone come Una piccola canzone d’amore è sintomatica. Dolorosa e amara, ha lo stesso incedere greve del placarsi di un tormento, è una stella di sentimento che collassa su se stessa e lascia un buco allo stomaco.

Ed ha questa solennità torbida che solo il vibrare di un’emozione può provocare.  

Lancinante e straziante, è una delle più belle canzoni d’amore mai scritte a memoria d’uomo, degna di stare al fianco di Mi sono innamorato di te di Luigi Tenco. 

Ci sono altri picchi incredibili, su questa catena montuosa di carne umana: Raggiungimi, intensissima e feconda di buoni presagi, l’accorato pianto blues di Questa strada e Parigi, cartolina blu notte di un amore leggero come un soffio di bella stagione. E poi pezzi dall’appeal più diretto ma non per questo più ordinari e ovvi: lo smooth jazz di Rapiti, il groove di Segreto, l’incredibile e astuta levità pop di Le onde (un pezzo che meriterebbe di vedere in ginocchio tutto l’airplay radiofonico di questa Italia di merda votata alle marchette finto-jazz che il mercato ci propina, NdLYS), il tango di Isola, il Tenco di Guardarti ridere.

Nessun passo falso, seppure la strada scelta non sia quella della perfezione accademica ma piuttosto quella più istintiva e animale della mossa azzardata e spontanea. 

Segreto è il dondolìo eterno di gioia e dolore, di speranza e malinconia, di coraggio e scoramento. Un tumore al pancreas diagnosticato mentre una folla di amici ti lancia petali di rose augurandoti tutto il bene del mondo.

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro 

 

VINICIO CAPOSSELA – Ovunque proteggi (Atlantic)

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Ovunque proteggi è un disco sulla sacralità pagana, sui riti popolari e sociali che lungo i millenni hanno definito la nostra concezione teatrale e spettacolare del momento spirituale, sulla ricerca umana della fede e sulle sue rappresentazioni, sul bisogno terreno di rifugio e di protezione e sul concetto patafisico di redenzione.

Dai massacri consumati nell’arena imperiale dove bestie, donne e gladiatori venivano immolati come vittime sacrificali (Al Colosseo) alle feste popolari in cui la processione diviene momento di celebrazione della morte ma anche assordante inno alla vita (L’uomo vivo, che trascrive in forma pop il momento della famosa festa del Gioia celebrata annualmente a Scicli, in cui il momento della risurrezione viene celebrato portando a spasso, con fare volutamente maldestro, il simulacro del Cristo “‘u gioia”).

Musicalmente Vinicio compie una scelta difficile, rendendo esoterica e complessa una formula che in passato aveva ceduto alle lusinghe del mercato. Ed è una scelta manifesta fin da subito: Non trattare si apre con rumori sinistri di ossa e si srotola macabra, con l’andamento di uno sciacallo che annusa le carcasse sui campi. È il manifesto del disco: un salmo, una invocazione, in qualche modo una dichiarazione di integralismo. 

Brucia Troia, a ruota, si srotola lungo un sentiero di campanacci e “chitarre preistoriche” e musicalmente è un incesto tra i paesaggi evocati da De André nella sua Buona Novella e le gighe etiliche de L’isola dei pirati

Dalla parte di Spessotto, il pezzo scelto come singolo, è invece il ponte malfermo, fatiscente, corroso dalle muffe col Capossela di Canzoni a manovella e delle quadriglie sbilenche di Tom Waits, ed il salto che ti porta in mezzo ai cunicoli di un disco difficile, malfermo e a tratti anche sfigurato (come nell’elettronico valzer assemblato da Gak Sato per Moskavalza), che si accartoccia su se stesso, si incava rantolante e si stende pesante come un sudario. 

 

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

 

EUROBOYS – Long Day’s Flight ‘Till Tomorrow (Man’s Ruin)

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FERMI!!!
Non siate tentati a passare oltre illudendovi che, dal nome della label, avete già capito tutto.
Qui non c’è traccia dello stufato stoner che sta marcendo dentro il pentolone Man’s Ruin. O di certo punk che è di casa nel catalogo di Franz Kozik, già marcio di suo.
E a nulla servirebbe, se non a depistarvi ulteriormente, dire che dietro questa orrenda sigla si cela un tassello dei defunti Turbonegro.
L’esordio degli Euroboys porta lo stesso titolo usato dagli Electric Prunes per narrare di uno dei loro tanti viaggi LYSergici e se iniziate l’ascolto da Sex Kabin per un attimo potrebbe sembrarvi di essere finiti proprio lì, nell’intercapedine riverberata dell’astronave delle Prugne Elettriche.
Fantasmi psichedelici che riaffiorano quando Ambulance Cruiser accende i motori con un vibrato vintage scivolato giù da un disco della Chocolate Watch Band.
Ma fermarsi qui sarebbe un delitto.
Provate allora a partire dall’inizio, dagli angoli smussati di Deliverance: i Wall of Voodoo che passeggiano per le strade di Louisville. Come piscio di cane che marca il territorio, serve per disegnare la scena del delitto, atterrire gli spettatori prima del duello tra Filadelfia (uno dei due pezzi cantati del disco) e Down the Road of Golden Dust, infilate l’una nell’altra e traboccanti di funky vitaminico.
Canzoni imbrattate e solcate da un groove sexy indelebile. Roba che non va via manco con la carta abrasiva.

Franco “Lys” Dimauro

AA. VV. – Nuggets Box #1 / #2 (Rhino)

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Quando, in epoca pre-punk, quel perdigiorno di Lenny Kaye mise mano al primo volume di Nuggets soffiando la polvere su alcuni ormai dimenticati 45 giri della sua collezione anni-60, pochi si sarebbero immaginati che avrebbe dato via ad una rivoluzione.

Etimologica, innanzitutto visto che fu proprio in quell’occasione che il termine punk fu applicato per definire, più che un genere, un’attitudine che da lì a breve avrebbe messo a ferro e fuoco il mondo occidentale.

Di costume e di ispirazione, pure, visto che proprio quella Bibbia sarebbe stato il testo sacro a cui si sarebbero ispirati tutti i gruppi punk pronti a venire: Dictators, Ramones, Sex Pistols, DMZ, Dead Boys.

Tutti avrebbero scoperto nell’attitudine primitiva delle garage bands dei 60’s la fonte cui abbeverarsi per dare inizio all’estinzione dei dinosauri. pochi immaginavano che alcuni di loro lo sarebbero diventati, ma questa è un’altra storia. Il furore di bands come Electric Prunes, Remains, Music Machine, Question Mark and The Mysterians, Seeds era energia allo stato brado, pulsione sessuale tesa allo spasimo, volgare, debosciata urgenza giovanile, catartica, estenuante, infinitamente viva perché odorante di benzina, erba, sesso.

Nelle recenti Nuggets Box pubblicate dalla benemerita Rhino Records (otto cd in tutto, divisi in due box) la ricerca di Lenny (poi sviluppatasi in tutta una collana di dischi dallo stesso titolo, NdLYS) è stata resa nuovamente incandescente con l’aggiunta di brani dalla forza parimenti primordiale (per la cronaca, il primo box è dedicato al garage punk statunitense, il secondo al resto del mondo…Italia esclusa).

Un vortice da cui è difficile uscire, una volta contagiati dalle tonnellate di fuzz guitars, organi Farfisa, sbrodolii psichedelici, freakbeat e selvaggi r ‘n b stomps. Non un disco prescindibile. Un pezzo di storia, due mattoni su cui rifondare l’universo e su cui salire per sputare in faccia a chi si ostina a guardare affascinato i dinosauri.

 

                                   Franco “Lys” Dimauro