THE TELL-TALE HEARTS – The Tell-Tale Hearts (Voxx)

Uno stordente cocktail a base di Pretty Things, Q65, Outsiders, Shadows of Knight e di altre lordure R ‘n B assortite.
Una full immersion dentro una selva di maracas, armoniche blues che tagliano come lame e riverberi da caverne troglodite.

I Tell-Tale Hearts erano nati per soddisfare l’esigenza di Mike Stax di suonare come i Pretty Things di Get the Picture?.
E fu esattamente così che per tre anni e mezzo questi cinque figli di puttana riuscirono a suonare, appagando un bisogno che Mike sentiva montare sin dai vecchi noiosi pomeriggi inglesi, appena mitigato dall’esperienza con i Crawdaddys e condiviso con Ray Brandes e il compagno di classe di quest’ultimo (nonché boyfriend della di lui sorella, NdLYS) Bill Calhoun. Non erano le uniche cose che Bill e Ray condividevano: c’era di mezzo pure lo stesso gruppo, una delle tante retro-bands che stanno popolando il paese in quegli anni e chiamati Mystery Machine.
È da quella batteria che fanno scendere David Klowden, per sederlo sullo sgabello del nuovo gruppo. Eric Bacher era invece un perditempo che si dilettava a suonare negli sconosciuti Freddie & The Soup Bowls e che da un po’ di tempo aveva preso a frequentare con insistenza il 2378 della Presidio Drive, villetta uguale alle mille altre piazzate a schiera in uno dei quartieri residenziali della città. È lui il quinto uomo per quella che diventerà la band del “cuore rivelatore”, nome razziato dal libro di Poe in cui Stax annega la frustrazione per lo split dei Crawdaddys. Un gruppo dalle potenzialità enormi ma anche con troppi vincoli e regole da rispettare.

La nuova band sceglie di averne una soltanto: non averne alcuna.

Quando salgono sul palco, i TTH‘s sono un branco. Con Ray intento a latrare come un cane e scuotere come un ossesso le sue maracas, Bill che spesso abbandona l’impalcatura arrugginita del suo organo Vox per lanciarsi in urticanti fraseggi di armonica blues, Eric alle prese col suo jungle-beat affogato nel fuzz, l’efebico Mike con la sua collezione di bassi vintage e i suoi urli da caveman in calore, David perso dietro un minuscolo kit di batteria, a pestare come piedi di contadina in un mortaio.

Tutti ugualmente indispensabili.

Cinque ragazzini infoiati con una vanga da becchino nascosta dentro le mutande.

È con quella che spaccano la crosta molle del rock da Odissea per calarsi nei cunicoli che li portano al cuore delle minuscole garage bands degli anni ‘60. È da lì che si inizia, registrando una demo presso lo Studio 517 di San Diego con pezzi rubati dai polverosi 7” collezionati da Mike. Il primo pezzo autoctono è firmato Stax/Calhoun e si intitola Dirty Liar, forgiato nelle stesse presse del deragliante punk-beat della scena olandese dei mid-60’s. Tutto grezzo, dall’ispido suono fuzz della chitarra di Eric al microfonaggio delle voci e della batteria, passando per le manipolazioni in diretta dei potenziometri degli ampli durante le sessions, ad opera di Jerry Cornelius.

L’incontro con Greg Shaw è il passo successivo. Lui ha appena messo su la Voxx Records con l’intento di dare spazio alle bands neogarage che cominciano a punteggiare la cartina degli Stati Uniti. I TTH‘s entrano subito a farne parte.

Forse troppo presto. Così che il loro esordio ha l’aspetto di un atto di amore finito in burla.

Greg è shockato dall’impatto devastante degli Hearts e ha fretta di avere un prodotto finito da commerciare.
Il risultato, a dire della band, fu catastrofico.
Però, siamo onesti, nessuno se ne accorse.

L’omonimo disco di debutto della band californiana era, è ancora, una scheggia di vinile saltata fuori da un disco dei Birds, degli Shadows of Knight, dei Pretty Things, dagli Stones del ‘66 o degli Outsiders. Ogni singola canzone, da quelle firmate dalla band (lo scoppiettante R ‘n B di Crawling Back to Me, il garage indemoniato di Dirty Liar, Losing Myself, Won‘t Need Yours, Come and Gone col suo avvolgente giro di organo Vox, la dolce Forever Alone screziata da chitarre fuzzedeliche della miglior tradizione Music Machine, il crepitante crescendo di She‘s Not What Love Is For) alle cover (Me Needing You dei Pretty Things, That‘s Your Problem e Keep on Tryin’ degli Outsiders, From Above e It Came to Me dei Q65) è suonata con un’energia assolutamente trascinante e una attenzione ai particolari vintage che solo i Chesterfield Kings possono contendergli.

Impossibile rimanere impassibili davanti ad un simile monumento.

                                                                                              Franco “Lys” Dimauro

 

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